Alla Scala ritorna Tosca, una delle opere più amate del repertorio, nel recente quanto controverso allestimento di Luc Bondy (già visto l’anno scorso e recensito nel sito), coprodotto con il Met ed il teatro dell’Opera di Monaco di Baviera, ora ripreso registicamente da Lorenza Cantini.
Nella scena essenziale di Richard Peduzzi non mancano le solite mura di mattoni che rendono l’interno di Sant’Andrea della Valle volutamente buio e claustrofobico con strette finestre rettangolari simili a feritoie. L’interno è volutamente spoglio, ma funziona e determinanti sono le luci di Michael Bauer (forse l’aspetto più riuscito dell’allestimento) che seguono i protagonisti nei loro spostamenti lasciando il resto in penombra (come il fascio di luce che segna l’entrata in scena di Angelotti che si cala dall’alto con una fune e corre all’interno della chiesa in cerca di rifugio, precipitandoci in medias res e introducendo un clima di tensione e pericolo). Quando Tosca entra in chiesa l’ambiente acquista in luminosità e colore e, all’irrompere di Scarpia, la luce si fa cruda, le pareti si tingono di ocra e le finestre di nero.
Palazzo Farnese è un salotto dalle alte pareti laccate, che varia di tonalità dal rosso all’arancio a scandire le fasi del secondo atto, con un paio di divani e una grande finestra aperta sul fondo contro cui Tosca, dopo aver compiuto l’assassinio di Scarpia, con un bel fermo immagine contemplerà il nero della notte. Nel terzo atto, di Castel Sant’Angelo vediamo solo l’accenno di una spianata che si staglia contro il cielo oscuro e un’alta struttura di mattoni sul lato destro della scena da cui si getterà Tosca, che, dopo aver fatto precipitare con l’imperiosità del gesto i soldati al suo inseguimento come fossero birilli, rimarrà per un istante sospesa nell’atto del salto illuminata da un flash di luce. Buona intuizione registica, che, nel fissare l’istante del volo, rende il personaggio per certi versi immortale.
Lo spettacolo non è particolarmente originale, il regista fa di Tosca il personaggio centrale del dramma, di cui mette in luce più la componente della diva volitiva che non della donna innamorata, e forse proprio alla luce di questa scelta interpretativa il ruolo di Cavaradossi rimane nell’ombra, come del resto la Roma papalina, che nell’opera svolge un ruolo protagonista ma che qua viene completamente sottaciuta. Di Luc Bondy abbiamo visto regie più ispirate, il décor minimale ci può stare, ma si vorrebbe una scelta registica di segno forte con degli elementi di novità reale e non apparente: non emerge nulla di nuovo nelle relazioni fra i personaggi, il fatto che Scarpia sia circondato da prostitute banalizza la perversione del personaggio e Cavaradossi che gioca a scacchi con la guardia prima dell’esecuzione è un esempio di comicità involontaria.
Martina Serafin è risultata un’ottima Tosca, l’affascinante cantante austriaca ha una dizione perfetta e un fraseggio attento a scolpire ogni parola come si conviene a una diva e la sua Tosca diva lo è, per la presenza scenica temperamentosa ma dalla recitazione moderna e un canto intonato e deciso che trova nel registro centrale il suo punto di forza. Marcelo Alvarez (che non aveva potuto cantare la prima in quanto indisposto) è apparso ancora affaticato, sempre belle le mezzevoci nei duetti e il canto sulla parola, come pure la struggente “recondita armonia”, ma la voce non ha lo smalto abituale ed il suo “lucean le stelle” è apparso sotto tono. In virtù dei consistenti mezzi vocali George Gagnidze è particolarmente apprezzato all’estero, ma l’interpretazione piuttosto caricata enfatizza gli aspetti beceri del personaggio senza metterne in luce il fascino e l’insinuante malvagità e il canto non è sufficientemente curato. Nei ruoli secondari si distingue l’agile e scattante l’Angelotti di Deyan Vatchkov e lo Spoletta bene a fuoco di Massimiliano Chiarolla. Non particolarmente caratterizzato il sagrestano di Alessandro Paliaga. Concludono adeguatamente il cast Davide Pelissero (Sciarrone), Ernesto Panariello (un carceriere) e il pastore di Barbara Massaro.
Luci e ombre nella direzione di Nicola Luisotti, che privilegia tempi serrati e un suono poderoso e fiammeggiante che crea un’atmosfera drammatica incandescente. Ma se nei momenti sinfonici si apprezza la bellezza dello strumentale, favorito dall’orchestra della Scala in gran forma, la direzione mostra limiti nel rapporto buca /palcoscenico, manca un disegno unitario e in alcuni momenti è percepibile lo scollamento, inoltre la poderosa massa orchestrale anziché sostenere il canto lo mette sotto tensione. Ancora una volta ottimo il coro preparato da Bruno Casoni
Se la prima era stata oggetto di forte dissensi, le repliche sono state accolte da applausi entusiastici: in medio stat virtus.