Danza
TOSCA

Una Tosca un po' bizzarra, tra rocce e crepacci

Una Tosca un po' bizzarra, tra rocce e crepacci

Forse altrove il meccanismo produttivo fatica a riprendersi dalle ferie, ma alla Fenice, dopo una pausa estiva tra metà giugno e fine agosto, si è ripartiti subito alla grande. Tredici recite di Traviata – sempre quella, sempre eguale – e nove della Tosca presentata l'anno scorso, in totale 22 spettacoli dal 25 agosto al 4 di ottobre, e tutti all'insegna del sold out. Teatro, insomma, aperto praticamente un giorno sì ed uno no. Ma di fatto, guardando il cartellone, trovi anche spettacoli anche per più giorni di fila: bell'impresa per il direttore Riccardo Frizza, che si è assunto il gravoso onere di presiederli dal podio tutti. Anche per le prove c'è stata qualche difficoltà da risolvere, richiedendo ovviamente ogni titolo la presenza di due cast diversi: buon che qualche artista – come Francesca Dotto e per Traviata e Stefano Secco per Tosca – fosse già pratico dell'allestimento, avendolo affrontato in passato, magari più e più volte; resta però sullo sfondo l'impressione di una certa routine, di una operazione che sarebbe sin troppo facile definire un tantino “commerciale”.

Detto questo, passiamo a commentare questa Tosca, ripresa dell'allestimento che il massimo teatro veneziano propose per la prima volta a maggio 2014, e già allora da noi ampiamente commentato su queste pagine (sottolineando peraltro anche in quel caso la non comune capacità produttiva dimostrata dalla Fenice nel mettere in atto, in tempo ristretto, un ambizioso «Progetto Puccini»).
Il ruolo di Tosca è tra quelli che hanno dato maggiori soddisfazioni a Fiorenza Cedolins per l'adesione psicologica,  certo, ma soprattutto perché sempre affrontata con il bagaglio di una tecnica perfettamente rifinita, ed una voce spettacolare, bella nel colore e solidissima nel fiato, sostenuta da un fraseggio che dire esemplare mi par poco. In queste recite veneziane però l'ho trovata meno scavata, come un po' affrettata e sbrigativa, e quasi debordante nei dialoghi con Mario e Scarpia – anche se il suo «Vissi d'arte» resta emozionante, sempre da manuale - e questo dispiace alquanto. «Dammi i colori» dice Cavaradossi al Sagrestano: ma quei colori stanno già tutti nella luminosa e fresca voce di Stefano Secco che – calato in una parte che gli è con ogni evidenza congeniale - trova tanti bei momenti da proporre con generosità al composito pubblico della Fenice, che lo ripaga con applausi scroscianti. Marco Vratogna disdegna la grande e nivea parrucca da magistrato inglese che indossava l'anno scorso Roberto Frontali, e risolve l'incarico affidatogli secondo uno stile che lo porta ad identificarsi al meglio nei personaggi mauvais: dunque eccovi servito uno Scarpia perfido sì, ma non triviale né infoiato. Mefistofelico, vien da dire, senza bieca brutalità, essenza di male allo stato puro, servito da una vocalità imponente e muscolosa. Riccardo Frizza dirige onestamente, con opportuna scelta di colori, mantenendo un corretto dialogo con la scena; evita ogni calligrafica ampollosità, né va alla ricerca di effetti facili (salvo qualche iniziale colpo di grancassa troppo in risalto, così che il rimbombo del cannone di Castel Sant'Angelo risulta eguale ai boati che lo precedono). Rodato il drappello di comprimari, tra i quali spiccano il colorito Sagrestano di Enric Martinez-Castignani, l'Angelotti di Cristian Saitta ed il maligno Spoletta di Cristiano Olivieri. Ineccebili gli interventi del Coro, preparato da Ulisse Trabacchin.
Quanto alla parte visiva, rimangono le perplessità già espresse in merito alla regia di Serena Sinigaglia, che se da una parte segue quasi con deferenza le indicazioni di libretto e partitura, e molta attenzione rivolge alla recitazione degli interpreti, dall'altra imbocca sentieri che è arduo condividere. E' il contorno che spiazza lo spettatore: come le stravaganti scenografie di Maria Spiazzi, che immettono l'azione in uno spazio disastrato, cupo e selvaggio, segnato sin dall'inizio da una pericolosa crepa del pavimento – siamo a S. Andrea, quindi è a forma di croce – che richiede il suo riempimento ed un deprecabile sgombero a vista di masserizie per il Te Deum, notoriamente affollato e bisognoso di spazio. Manovre a vista, alquanto fastidiose sebbene mascherate in parte dalle luci, che si distinguono chiaramente mentre Floria e Scarpia discorrono in prima linea. Poi le rocce emergono sempre più e le fessurazioni man mano si allargano, inghiottendo persino il tavolo della “povera mia cena” di Scarpia, tanto da mettere in pericolo l'equilibrio degli interpreti. Alla fine rimane solo un desolato panorama roccioso, privo di riferimenti alla fortezza papale: che tutto questo degradarsi stia a rappresentare l’incuria che affligge i nostri celebri siti archeologici, della quale nessuno si preoccupa, è una bizzarra enunciazione della regista milanese che lascia quantomeno sconcertati. Lo stesso vale per il modo assai curioso con cui tratta i costumi Federica Ponissi: belli, disegnati con cura, collocati con scrupolo filologico all'epoca delle prime scorribande napoleoniche, però mostrati a volte sudici, logori, lacerati. Altra denuncia d'incuria?

Visto il 02-09-2015
al La Fenice di Venezia (VE)