Prosa
TRILOGIA DEGLI OCCHIALI

I "danteschi" occhiali della quarta dimensione

I "danteschi" occhiali della quarta dimensione

I personaggi, già in scena quando il pubblico approda in sala, inforcano occhiali per non vedere, per mettere a fuoco solo la propria verità, mentre il pubblico, catapultato fin dai primi attimi nel visionario ma palpabile mondo di Emma Dante, inforca i propri occhiali, un po’ come quelli che ci danno per vedere i film in 3d… Potremmo definirli occhiali 4d, ideali, impalpabili, lenti che correggono la miopia del quotidiano, proiettandoci in una verità affatto sconosciuta, ma tenuta, più o meno volontariamente, da parte; una realtà che viene esaltata, illuminata dallo sguardo emozionale, accorato, crudo e poetico della talentuosa autrice-regista.
Protagonista dei tre atti unici è un’umanità al margine, un umanità che vive la propria solitudine nella cecità di chi non riesce o, ancor meglio, non vuole vederla, e che di riflesso crea una propria realtà visibile solo al proprio sguardo, lontana da occhi che la giudicano o la ignorano.
La “Trilogia degli occhiali”, elaborata in un anno e mezzo ma figlia di un percorso di dieci anni è, come sostiene la stessa autrice-regista, incentrata su tre condizioni umane, “in ombra perché danno fastidio: la povertà, la malattia e la vecchiaia”; temi trattati con amorevole crudezza, come è  proprio del suo teatro, ma anche con un’ironia costante, sia essa dichiarata o solo sottesa. Tre pièce del tutto autonome con cui la Dante conferma il suo personale legame con il Teatro Stabile di Napoli, che produce lo spettacolo insieme con la Compagnia Sud Costa Occidentale di Palermo, il Crt di Milano ed il Théâtre du Rond-Poin di Parigi.
In “Acquasanta” un mozzo scimunito, ancorato ai propri ricordi su una terra che è luogo più mentale che fisico, rivive le sue folli e affascinanti avventure marinaresche e, tra le angherie dei compagni di viaggio, canta il proprio spassionato amore per il mare. Un firmamento di timer ticchetta sulla sua testa scandendo il tempo di un ricordo tanto vivido da farsi tangibile e reale; il trillare dei timer riporta il marinaio nel silenzio del suo abbandono, lo fa ripiombare nella sua realtà di solitudine, confinato in quel luogo-non luogo in cui è stato lasciato… lui che, come il Novecento di Baricco, non era mai sceso dalla nave. A dar voce, corpo e… saliva (il marinaio ha talmente il mare dentro che sulla bocca gli compare costantemente un gocciolo di bava, la schiuma del mare, dice lui) al protagonista, uno strepitoso Carmine Maringola, che si muove a guisa di burattino, impersona ciurma e capitano, da spazio a vecchie canzoni in un’interpretazione affidata per buona parte alla parola, ma che fa della recitazione non verbale un elemento imprescindibile.
E tanta parte ha la comunicazione non verbale ne “Il castello della Zisa”. In scena due donne, forse due suore, che tra una preghiera e l’altra accudiscono Nicola, giovane malato in stato catatonico. Lo puliscono, lo sfamano, lo rimproverano e lo stimolano, mentre lui continua immobile a rivivere la sua storia. In un’impennata di cui solo noi pubblico siamo testimoni, grazie agli occhiali 4d fornitici dalla Dante, ci racconta la spensieratezza di bambino, gli eccessi e i primi pruriginosi istinti, le incredibili avventure che ha vissuto quando, affidato alla zia nella casa davanti castello della Zisa, si astrae per divenire protagonista di un racconto incantato, lui guardiano del castello, con maschera di drago e guanti d’artigli, a proteggere le principesse dai diavoli. Poi l’allontanamento dalla zia… e Nicola s’incanta per sempre. Bravissimi i tre interpreti: Claudia Benassi e Stéphanie Taillandier, le due suore-assistenti che tessono comici ed eloquenti dialoghi di non-parole; Onofrio Zummo, misurato e toccante nell’insidioso ruolo del disturbato mentale.
La nostalgica vicenda di “Ballarini” ci svela una donna anziana e ricurva che pesca ricordi in un vecchio baule… e i ricordi la rapiscono… la portano indietro nel tempo… le fanno rincontrare lo slanciato compagno... e poi indietro…  sempre più indietro…  in una sorta di vortice della memoria che fa rivivere ai due le tappe più importanti del loro amore: la gravidanza, il sesso, l’innamoramento… in un succedersi di momenti-movimenti scanditi da una colonna sonora che procede cronologicamente all’incontrario, da Jovanotti a De Sica. Elena Borgogni e Sabino Civilleri  sono gli appassionati ed impeccabili interpreti dei due anziani protagonisti che la verità del palcoscenico ringiovanisce, ancor più bravi se si considera che il loro eloquente raccontare è affidato unicamente a movimenti che utilizzano la canzone come una sorta di linguaggio parallelo a quello verbale.
La Dante, che firma dello spettacolo anche i costumi e l'essenziale ma suggestivo impianto scenografico (realizzato a quattro mani con Carmine Maringola) vince anche questa scommessa, confermando il suo talento di affabulatrice e rinnovando al contempo il modo in cui mette in scena ogni volta il suo personalissimo e toccante sguardo sul mondo. E se anche qualche eccesso ci fa pensare ad un… compiacimento, come una sorta di erudito ermetismo d’artista, che concede  spazio a un non sempre necessario eccesso, non si può non allontanarsi dalla sala con la convinzione di aver visto qualcosa di unico, figlio della mente e dell’estro di un’artista capace di creare grandi suggestioni e di insinuare nello spettatore quel tarlo che continua a rodere anche quando ci si allontana dal teatro.

Visto il 25-01-2011
al San Ferdinando di Napoli (NA)