La miopia sfuma i confini del mondo, è una cataratta che protegge il nostro buio, le nostre certezze. Lo sa bene O’ Spicchiato, abituato all’infinito azzurro del mare, lo sa Nicola che ha gli occhi spalancati ma non vede e se ne sta incantato su una sedia, come un mucchio di stracci vecchi. Miopi siamo anche noi spettatori, non lo sospettavamo, eppure certe storie ce le hanno dovute mettere sotto gli occhi perché non riuscivamo a vederle. Ognuno fa la sua parte.
Emma Dante reinventa un teatro antico. C’è una tensione palpabile nelle cose, nelle storie, nei dettagli. Il suo è un teatro di antagonismo. Non vuole esserlo programmaticamente, ma finisce per diventarlo perché oggi raccontare il dolore corrisponde a “provocare”. La Trilogia si pone su questa falsariga, provoca nel senso più intimo del termine: “chiama avanti” nuove domande, “chiama fuori” stereotipi logori. Le smonta ad una ad una, queste nostre verità, bambole rotte nelle sue manine di bimba visionaria. Il suo teatro diventa necessità, rompe, lacera, ci riempie di gioia il cuore. Abbiamo a che fare con il corpo, con gli odori, i sapori , con la luce negli occhi degli attori. E noi non siamo più abituati a guardare.
La Trilogia degli occhiali è un trittico, tre atti - Acquasanta, Il castello della Zisa e Ballerini - slegati eppure coniugati insieme. Un esempio felice in cui il valore complementare dell’unione supera di gran lunga la somma degli elementi dell’insieme, la sinergia di queste storie ha per risultato un’evidenza empirica: il nostro straniamento.
Il lirismo dei dimenticati esercita un fascino particolare. Si sente la vita pulsare, si può ancora far poesia. La parola è scarnificata, impastata di dialetto e viscere, sbiascicata, sputata. Sul palco basta la fisicità espressiva dei corpi, la regia è un lavoro di sottrazione, sopravvivono il fiato, la saliva, il cuore, lo stomaco.
Le tre storie sono tragiche e struggenti, ciascuna a suo modo. Fanno ridere e piangere insieme, sono un pugno nello stomaco, un cazzotto in faccia, una carezza. Ogni storia è un naufragio, una scheggia. Gli attori si danno con generosità e slancio in uno sforzo estremo: sanno che l’anima passa attraverso il sudore, lo scricchiolio delle ossa. Ci sono sapori in questo spettacolo che lo rendono familiare per tutte le matrici adoperate.
Il Teatro di Cascina propone i primi due capitoli della Trilogia degli occhiali.
Acquasanta, il primo, è la storia di un “mezzomozzo” innamorato del mare. E’ imbarcato da quando aveva quindici anni, alla terraferma non ci crede più. Carmine Maringola ci regala un’interpretazione sublime. Amplifica il gesto che genera la parola, improvvisa come pochi sanno fare, sbava, sbraita, scalcia, balla, vola. Tira fuori l’anima, la stilla fra le gocce di sudore che gli imperlano la fronte. Il presente è l’unico tempo che il mezzomozzo abita. La sua vita, la sua storia durano il fiato dello sguardo al pubblico. Cuce insieme passato e futuro, ne fa frammenti di eternità e a questi affida la sua dichiarazione d’amore al mare.
E’ uno sproloquio di passione quello dello Spicchiato ormai abbandonato dai compagni, crocefisso al suolo della terraferma. Così si inventa la prua di una nave e rivive la sua vita a bordo, gli ultimi giorni prima dell’abbandono, la ciurma, il capitano. Fluttuante e molleggiato, nuota abbracciato al mare sotto una nuvoletta ticchettante di firmamento. Quando lo abbandoniamo al suo destino è ormai un derelitto pezzo di legno, una marionetta in balia di gomene e ancore. Ogni cosa è studiata nel dettaglio. Gli schizzi d’acqua, i flutti sulla faccia: solo questo e nulla più rimane al mezzomozzo. Ma noi abbiamo gli occhi pieni di sale.
E’ il secondo capitolo, Il Castello della Zisa, a togliere il sonno. Nicola, il bravissimo Onofrio Zummo, ragazzo del quartiere popolare Zisa di Palermo, è un corpo rotto. Due suorine – Claudia Benassi e Stéphanie Taillandier - lo accudiscono in un luogo indefinito, convento asilo istituto manicomio. Le infermiere squittiscono in un grammelot francese a mezzavoce che strappa risate e applausi. Cercano di farlo giocare, lo puliscono, lo sistemano. Un giorno l’incanto si rompe e Nicola riparte. La memoria rimaneggia vecchi ingranaggi, rianima il drago del Castello di fronte al quartiere della Zisa. Nicola bambino stava alla finestra a guardare i diavoli appollaiati sul tetto. C’erano le principesse da proteggere, c’era la zia Marisa che lo accudiva. Così l’anima ritorna a volare, fluttua leggera e svelta, scorrendo gli anni, i volti. E’ il corpo però quello che deve attraversare. Poi un tonfo, i muscoli rigidi impazziti e ingovernabili, i pugni a terra, le gambe a scalciare. Un urlo lacera, rimbomba a distanza di giorni nella testa. Nicola ci sveglia, ci rompe il cuore.
La Trilogia assomiglia al trittico dei “Tre studi per una crocifissione” di Bacon, per quel grumo irrisolto di inquietudine che delle tre pieces è il filo d’Arianna, per quella croce che si portano dietro tutti i “cecati”. La sopravvivenza scandalosa del sacro e la sua commistione spuria con il profano è condensata nella simbologia blasfema di questo teatro senza pudori.
Alcuni critici hanno proposto una lettura dantesca contemporanea della Trilogia: la vecchiaia dei Ballerini come un paradiso profano, la povertà oppiacea di Acquasanta come purgatorio di commistione fra lacrime e risate, la malattia di Nicola ne Il Castello della Zisa come inferno implacabile. La trilogia degli occhiali è un disegno sulla sabbia, un omaggio neorealista e visionario. Chi può mettere in fila indiana le tre sofferenze, farne numeri ordinali come saliscendi o comprenderle per davvero come in un disegno compiuto?
Neppure importa, in fondo. Importa solo riuscire a guardarlo in faccia il dolore, senza filtri né resistenze né diottrie di miopia. Forse allora serve fuggire le visioni di insieme organiche, quelle che spiegano tutto. Che mettono punti fermi e fanno dormire sereni. Sono i disegni frammentati, discontinui, misteriosi quelli che si fanno ricordare. Ed è così che intendo la Trilogia.
Forse perché sono miope anch’io, per davvero.