Prosa
TRILOGIA DEGLI OCCHIALI

Una marginalità che riguarda ognuno di noi

Una marginalità che riguarda ognuno di noi

Quello di Emma Dante è un teatro sul campo, che prende forma e corpo sulla scena, dove ha una propria specificità semantica, al di là di quella che il teatro può avere sulla carta stampata, come parola per la scena.
Se ne può fare una agevole verifica leggendo i tre studi che compongono la Trilogia degli occhiali, pubblicata per i tipi di Rizzoli, nel Gennaio di quest'anno, tre studi, si legge, sui personaggi e non sulla storia.
Tre situazioni diverse, tre pièce autonome, accomunate dagli occhiali che portano tutti personaggi, occhiali che sono il segno esteriore di uno status di mancanza, una semicecità che si fa espressione di una marginalità liminare alla malattia, alla povertà, alla vecchiaia.
Su ognuno di questi temi Dante ha scritto una pièce che ha una sua dignità letteraria, al di là del loro essere copione, un copione che nel diventare spettacolo sul palco cambia sostanzialmente.
Così capita che nella seconda pièce, Il castello della Zisa, tutti i dialoghi tra i due personaggi femminili, due suore, pur se scritti, vengono sviluppati sul palco come bisbiglio incomprensibile rimanendo come sottotesto per le due interpreti, la giovane Claudia Benassi e la meno giovane (ma non vecchia come stabilito nel testo) Stéphanie Taillandier, che di quei dialoghi ce ne restituiscono intenzioni e significato coi gesti e la postura oltre che con la voce.
Mentre nella prima pièce, Acquasanta, i due pezzi di lamiera, tre ancore appese al graticcio legate, alle  caviglie e alla cintola dell'attore non sono la traduzione scenica dello  stato d'animo o esistenziale del personaggio ma caratteristiche concrete dei deliri del  barbone ex marinaio protagonista della pièce in una sorprendente coincidenza tra storia evocata (dal personaggio e non dall'autore) e storia narrata. Il personaggio è un barbone che racconta, in  lingua napoletana, a suo modo, di quando faceva la vita da marinaio e l'ambiente nel quale agisce non è quello scenografico del teatro "che  rimanda ad altro" ma quello concreto della sua attuale esistenza.
Emma Dante chiede moltissimo ai suoi attori addestrandoli ad una perfomatività che eccede quella del teatro di parola verso specifiche capacità fisiche che richiedono un lavoro di allenamento e pratica, grazie ai quali ottiene una precisione estrema, pulitissima priva di qualunque sbavatura. Così Carmine Maringola sa manovrare le tre ancore appese con maestria, non solo muovendosi senza che le tre corde si intreccino, ma fingendo addirittura di rimanere appeso per la corda (sfruttando invece solamente la propria forza muscolare) dimostrando un grande training fisico. Claudia Benassi, Stéphanie Taillandier e Onofrio Zummo (che recita in una splendida lingua siciliana) possiedono un training di coordinamento (la vestizione delle due suore, che avviene specularmente, mentre si muovono all'unisono raccogliendo i vestiti sparsi per terra ) e di agilità manuale (tutti e tre manovrano palle da giocoliere, cerchi e hula hoop). Elena Borgogni e Sabino Civilleri della terza pièce Ballarini dimostrano una grande abilità posturale interpretando dei personaggi vecchi che ringiovaniscono man mano che la pièce procede.
Queste abilità fisiche non sono però fine a se stesse né vengono ostentate in chiave spettacolare, ma, al contrario, sono impiegate esclusivamente per la costruzione dei personaggi di cui ogni pièce rappresenta uno studio secondo precise coordinate.
La povertà per l'ex marinaio barbone, la malattia per le due suore che accudiscono con grandi contraddizioni un giovane ragazzo catatonico, che in un guizzo di vita comincia a parlare direttamente al pubblico, per poi tornare nel suo stato di dipendenza. La vecchiaia come monumento vivente di una vita passata, trascorsa, consumata, che i due personaggi  rivivono nei corpi piegati dall'età, che viene elusa almeno momentaneamente dal ricordo emotivo che si impossessa dei loro corpi facendoli ringiovanire, ballando a ritroso la loro storia d'amore (qui sì in un contesto evocativo).
Tre pièce complesse nella pur apparente semplicità da fruire separatamente oppure di seguito lo sguardo d'insieme dando loro maggiore respiro. Tre diverse varianti di una stessa marginalità che, in un modo o nell'altro, riguarda ognuno di noi.

Visto il 09-03-2011
al Palladium di Roma (RM)