Milano, teatro alla Scala, Trittico Novecento
MITI DI OGGI E DI IERI
Nel foyer della Scala qualcuno mormora, con un certo rammarico, che Bolle questa volta sarà piuttosto statico sulla scena. Siamo di fronte al fenomeno di un nuovo mito che non può disattendere le aspettative dei suoi fans: vederlo librarsi e volteggiare arditamente nell’aere.
Ma andiamo per ordine perché prima di Apollo interpretato dal nostrano Roberto Bolle, ci attende alla Scala Bella figura di Jiří Kylián (classe 1947). Coreografo ceco-olandese di fama mondiale, anima del Nederland Dance Theatre, Kylián è amante dell’Italia e della nostra lingua e la usa infatti per il titolo, alludendo espressamente al fatto che tutti vogliamo sempre mostrare il nostro lato migliore, a maggior ragione i ballerini di fronte al loro pubblico. Lo spettacolo non è ancora iniziato, le luci sono accese e il pubblico riempie il teatro. Sul palcoscenico sette danzatori riscaldano i muscoli e ripassano la coreografia in silenzio. Appena inizia la musica tutti si fermano, si chiude il sipario, si spengono le luci e il balletto comincia. Si avverte subito che non esiste confine tra la vita vera e lo spettacolo. Il sipario, non più cortina anonima con funzione delimitante lo spazio e il tempo, tra l’inizio e la fine della performance, si trasforma in elemento attivo e interattivo, sollevando, stringendo e annodando (per azione di una figura nascosta) una danzatrice che per un attimo esce dalla stretta, mostrandosi a effetto nudo (indossa solo un body color carne). Il suo compagno, a terra e in luce, sempre nude-look, annoda da sé le proprie membra. Da qui una escalation di danza tra terra e cielo che si sviluppa, prima con un morbidissimo duo-trio su musica di Giovanni Battista Pergolesi, poi in un doppio solo in parallelo, dalle linee più spezzate, su musica di Lukas Foss. Il sipario, attore tra gli attori, da aperto solo in parte si allarga per fare entrare i ballerini in scivolata. Ancora un duo e un trio si intrecciano con perfetta intercambiabilità dei ruoli tra lui e lei nelle prese, negli slanci e nella guida dei passi. Dopo la musica di Alessandro Marcello, sul pizzicare dei mandolini di Vivaldi, due ballerini si muovono come marionette con gesti disarticolati e comici, come il sollevare inavvertitamente la spalla; sono l’uno il burattinaio dell’altro: piedi flex, braccia e gambe piegate ad angolo retto e mosse a scatto; lei sollevata e ributtata a terra come una bambola. Compare quindi una danzatrice dalla morbida crinolina vermiglia, a torso nudo, presto raggiunta da altri danzatori abbigliati come lei. Attraverso il sipario a mezza altezza, si entra in un sogno, in un minuetto (musica di Giuseppe Torelli) di creature fiammeggianti, assolutamente unisex. Sono fiori, fiamme, sacerdotesse e sacerdoti, creature di un mondo antico e attuale allo stesso tempo. Si raggiunge il climax con le due ragazze che rimangono sulla scena, incorniciate dai lembi del sipario, ora aperto sopra e di lato quanto basta per far concentrare lo sguardo su quel punto. La loro danza speculare pervade i nostri sensi: danza soave, raffinata e saffica, con citazione esplicita del famoso dipinto seicentesco, conservato al Louvre, con Gabriella d’Estrées e una delle sue sorelle in atteggiamento giocosamente erotico, alla corte di Fontainebleau. Fluttuano e mai si toccano le fanciulle, in una dimensione onirica; tutta una illusione-allusione, fino a sfilare le gonne giù fino ai piedi, in un cercarsi e mai raggiungersi di corpi e menti, qui eppure perennemente altrove.
Il finale si approssima più dinamico sullo scorcio di due grandi bracieri accesi, mentre, tra forze opposte e convergenti, rotolate e scivolate, si susseguono quattro passi a due con intrecci e appoggi di genialità e inventiva assolute: lui che posa la testa sul polpaccio di lei oppure la mano sulla nuca nonché il mento di lei. Il cerchio si chiude perché nel silenzio, come all’inizio, si ultima lo spettacolo, con il duo che riprende il gesto giocoso della spalla sollevata, ora riposta vicendevolmente con carezzevole pietas.
Autore dallo stile personalissimo, Kylián viene definito neoclassico, ma la tecnica classica è solo una cifra del suo linguaggio, aperto alle più variegate contaminazioni (persino la danza aborigena australiana), a prescindere da ogni moda o genere definito; sicché si potrebbe dire neoclassico nel senso più “artistico” del termine, pensando per esempio al Canova, per quella perfezione morbida, elegante e raffinata, per quella chiarezza e fluidità dei movimenti e per la scelta di una sobrietà venata di tristezza che è l’anima di una bellezza ideale, commovente e senza peso, altra accezione possibile, per altro, di Bella figura. Spaziando dalla musicalità contemporanea a quella barocca, la danza di Kylián nuota dentro le note e si snocciola come segno che diventa disegno, come un linguaggio che si fa discorso emozionale, sempre però coerente e strutturato. Creato nel 1995 per l’Opera di Parigi e già concesso all’Australian Ballet e ai Grands Ballets Canadiens, è stato mirabilmente interpretato dai ballerini della Scala con cui il coreografo, come di consueto, ha stabilito un rapporto di scambio e confronto e non di semplice insegnamento dei passi. Solo così è possibile ottenere quella comunicazione espressiva dei corpi e dei volti, non esibizionista e piuttosto pregna di folgorante e meravigliosa bellezza. Un antidoto al dolore e alle brutture che ci circondano e un vero regalo al pubblico che ha ringraziato con ovazione di applausi.
Arrivato il momento di Apollo, sopra una costruzione con scala metallica, simbolo della roccia, Leto partorisce il divino, concepito dal potente Zeus, sull’isola di Delo. Ed ecco l’Apollo-Bolle che si erge in piedi fasciato da strette bende. Due dee lo aiutano a liberarsi e gli porgono un liuto che il dio si appresta a suonare al centro della scena. Inizia l’intreccio tra e con le sue muse Calliope, Polimnia e Tersicore (Sabrina Brazzo, Mariafrancesca Garritano e Gilda Gelati); Apollo accompagna, guida e conduce il trio per mano per poi istruire ognuna nell’arte che le è propria: per Calliope la poesia, simboleggiata dal dono di una tavoletta, per Polimnia la recitazione, riceve infatti una maschera, e per Tersicore, che riceve una lira, il canto e la danza. Tutte si esibiscono per il loro dio ma è solo l’ultima che riceve le sue lodi e l’onore di danzare con lui un ispirato passo a due. Raggiunto dalle altre muse e richiamato al cielo da Zeus, Apollo ascende al Parnaso, risalendo sulla costruzione metallica.
Siamo di fronte ad un pezzo di storia della danza. La coreografia, nata nel 1928 dall’estro di George Balanchine (1904-1983), genio coreografico di Djagilev, dopo l’era di Fokine e Nijinsky, si è conservata nel tempo. Anche perché Balanchine, a differenza di altri lavori, lo riprese e modificò negli anni; lo presentò nel 1940 in America con il titolo attuale, variando l’originale Apollon musagéte, ma non smise mai di rielaborarlo, fino agli anni Settanta, quando in preda a ripensamenti, decise di tagliare, con orrore della critica, sia la musica (di Igor Stravinsky) che le scene del parto e l’ascesa finale all’Olimpo. Successivamente l’opera è stata presentata in entrambe le versioni, ridotta o, come oggi alla Scala, integrale. Ultimo tra i balletti di Djagilev con tema mitologico, racconta una storia semplificata secondo lo spirito dell’epoca ed è un omaggio alla tradizione accademica del balletto. In contrasto con la ricchezza del balletto ottocentesco, tutto è però sorprendentemente chiaro, lineare, essenziale. Al di là dell’idealismo classico, per cui Apollo si divinizza per tramite dell’arte, Balanchine ricerca negli anni una purezza sempre più limpida; mantiene l’elemento mimetico e gestuale (eredità della pantomima ottocentesca), ma è appena accennato giacché il coreografo sovietico, divenuto membro della Modern Dance newyorkese, spinge sin dagli esordi nella direzione dell’astrazione e della geometria nella danza, nei costumi e nella scenografia. La sperimentazione continua negli anni, sicché i costumi semplici e pratici che vediamo sono della fine degli anni Cinquanta, abbandonati i precedenti accostamenti piuttosto incongrui tra i costumi attici maschili e i tutù femminili eppure le tuniche alla Isadora Duncan. Già interprete di Apollo alla Scala nel 1996-97, Bolle continua la tradizione dei più grandi interpreti della storia, da Serge Lifar, nella primissima edizione, a Jacques d’Ambroise nel 1965 e poi Peter Martin nel 1983, per il New York City Ballet. Solca la tradizione, la nuova ètoile della Scala, e la solca con perfezione. Quella stessa voluta da Balanchine. Leggerezza, semplicità primitiva ed eleganza, ne fanno un vero e proprio classico contemporaneo. Bolle conquista il pubblico e la modernità dell’opera affascina ancora, forse proprio perché ha attraversato mezzo secolo; niente a che vedere con il pathos di Kylián e pochi movimenti, certo, poche piroettes, perché non vuole essere questo lo spettacolo, bensì un’armonica e attualissima composizione minimalista.
Il terzo e ultimo soggetto è Voluntaries dell’americano Glen Tetley, scomparso due anni fa a ottantun’anni; già ballerino per il Joffrey Ballet, per Robbins e per la Graham, per Agnens De Milles e l’American Ballet Theatre, da coreografo ha integrato la Modern Dance con la sua solida conoscenza del codice accademico, superando le barriere tra classico e contemporaneo: alla Scala, nel 1981, presentò la sua versione de Le sacre du printemps. Su musica datata 1938 (autore Francis Poulenc, altro artista al seguito di Djagilev) il balletto nasce nel 1974 per i danzatori dello Stuttgarter Ballet, come omaggio alla scomparsa prematura del loro direttore John Cranko, ed è un susseguirsi di quadri all’insegna della rinascita dopo la morte: ascese e discese, fughe attraverso lo spazio, salti e prese tra volo e caduta. D’altra parte il titolo rimanda al termine musicale inglese voluntary ovvero un insieme di brani per organi o fiati eseguiti con improvvisazione, prima, durante e dopo una cerimonia liturgica. Il balletto è astratto e segue la struttura del Concerto per organi, archi e timpani di Poulenc, con stile complesso e articolato. Tetley mette in luce le differenti qualità del movimento classico, con l’esibizione del vocabolario accademico sulle punte, e vi innesta i gesti espressivi delle braccia, della testa e soprattutto della schiena, derivati dagli studi con la Holm e la Graham. Nessuna storia da raccontare dunque e nessuna artificiosità; piuttosto una coreografia densa di energia, fatta di timbri, colori e movimenti per una coralità sintattica di diciassette danzatori (una coppia principale, altre sei coppie e un trio di due uomini e una donna). Evidente anche la citazione da Summerspace (1958) di Cunningham con scene e costumi pittorici realizzati da Rauschenberg, qui rievocati dallo scenografo Rouben Ter-Arutunian con le macchie colorate sulle tute aderenti dei ballerini e nel fondale chiazzato di pennellate. Indubbiamente uno spettacolo colto e linguisticamente ricco, forse troppo, e troppo poco evocativo invece di quel sentimento quasi religioso per cui è nato; tant'é che il pubblico scaligero, italianamente emotivo, non ha molto apprezzato, lesinando gli applausi conclusivi.
Visto a Milano, teatro alla Scala, il 13 maggio 2009
Alessandra Zanchi
Visto il
al
Teatro Alla Scala
di Milano
(MI)