!['Turandot' Turandot](https://www.teatro.it/old/2018-08/Turandot_FotoEnnevi.jpg)
La stagione 2010 in Arena è la numero 88. Non era mai capitato in ottantotto anni di dedicarla interamente a un regista. Questa è la prima, tutte regie di Franco Zeffirelli, 87 anni, quasi coetaneo del Festival. Un Festival che dunque quest'anno si può chiamare “Festival Zeffirelli”. Cinque regie, un nuovo allestimento (Turandot) e quattro degli anni passati (Aida, Carmen, Rigoletto e Madama Butterfly), avvicendatisi negli ultimi quindici anni. Zeffirelli che cura regia e scene di Turandot (e di tutte le altre opere in cartellone).
Un grande paravento coi draghi restringe il proscenio, dominato da passerelle, pontili, scalette, come se sotto ci fosse acqua. Dietro si intravedono pagode, strutture torreggianti coi tetti sovrapposti, una città proibita nascosta alla vista. Il popolo si ammassa, grigio negli splendidi costumi di Emi Wada, persone povere, spente, affamate. L'ingresso di Ping, Pong e Pang è una sinfonia di colori, verde, rosso e giallo, un colore dominante per ciascuno, copricapo oscillanti con mezzelune, quadrati e cerchi, ventagli (chissà se pensati fin dall'inizio o aggiunti successivamente per resistere al caldo torrido di queste serate).
Calaf sente la voce di Turandot dietro il muro, presenza evanescente. Baldacchini con nastri e fiocchi, processioni di monacelli in bianco a testa rasata, insegne argentate ma anche teste mozzate appese a pali di qua dal muro. Tutti si affollano sull'intreccio di passerelle e pontili, Turandot si affaccia alla terrazza.
Secondo atto: dopo l'attacco di Ping, Pong e Pang la scena si apre ed appare la reggia dell'imperatore, scintillante di oro e argento con riflessi verde giada. Scale conducono al baldacchino del trono, una struttura sostenuta da quattro colonne tortili di sapore berniniano. Il pubblico applaude a lungo, apprezzando la scena scintillante come un lunapark, dove si ripetono i motivi delle passerelle e dei pontili. Lo spazio è affollato, ballerine in rosa con ombrellini, comparse in bianco con pennacchi, dignitari in beige con ventagli, concubine dalle stoffe luccicanti.
Molto efficace il contrasto tra lo spazio imperiale e quello popolare che, nel contrasto, appare ancora più povero e spento: il popolo steso a terra sembra un magma indistinto di fame e povertà, indigenza e ristrettezza.
Turandot è in celeste, una raggiera in testa che ricorda la Lucia Mondella del Trio in un celebre sceneggiato televisivo. Ecco il momento degli enigmi: alle soluzioni i dignitari di corte manifestano stupore e nervosismo agitando i ventagli con movimenti corti ed accelerati. Risposta dopo risposta, Turandot scende verso il basso, verso il popolo. Calaf, populista, si avvicina al popolo, un bagno di folla, stringe le mani e saluta, come una rock star.
Nel terz'atto la principessa è argentea, luccicante: quando si mette a braccia conserte sembra chiuda uno scudo davanti a sé, impenetrabile nella sua corazza.
La regia segue fedelmente il libretto, sia nell'oggettistica che nella gestualità, impegnata a riempire ogni spazio possibile sul palcoscenico.
Il finale è quello di Alfano, evidentemente ripristinato dopo il taglio voluto da Zeffirelli per esaltare la figura di Liù, che però rendeva meno comprensibile il lieto fine. Quindi morte di Liù, lungo duetto Turandot-Calaf, la scena che si riapre per il gran finale.
Antonio Pirolli, chiamato a sostituire Plàcido Domingo, dirige con cura l'orchestra dell'Arena con tempi impeccabili, suoni cesellati, volumi adeguati, anche se si ha l'impressione che le note giungano “ovattate”.
Elena Popovskaja è una Turandot di bella presenza e dalla voce importante, sontuoso il registro centrale, corposo e voluttuoso, acuti sicuri e luminosi. Marco Berti sente profondamente Calaf e lo affronta con passione al punto da richiedere, meritatamente, il bis per “Nessun dorma” (concesso): lo squillo è esemplare e, soprattutto, la dizione ottima (non così la pur brava Popovskaja). Tamar Iveri è una timida e vocalmente adeguata Liù. Accanto a lei, irriconoscibile sotto il trucco, Carlo Cigni è un autorevole Timur dalla voce vellutata e di bel colore, molto espressiva. Antonello Ceron è uno ieratico, sacrale Altoum, una figura a metà fra l'imperatore cinese e il papa. Ping, Pong e Pang, rispettivamente Filippo Bettoschi, Aldo Orsolini e Luca Casalini, affrontano i ruoli vestiti in splendidi abiti con differenti copricapi e maschere facciali. Adeguato il mandarino di Nicolò Ceriani; Salvatore Schiano di Cola è un Principe di Persia che, andando verso il patibolo, si lascia spogliare degli ori (collane e bracciali) dal popolo.
Coro, preparato da Giovanni Andreoli, molto valorizzato e in ottima forma vocale.
Pubblico caloroso e partecipe, molti applausi per i cantanti e la scenografia: evidentemente il gusto zeffirelliano ha molti fans in Arena. Sicuramente questo allestimento diverrà un classico di Verona.