TURNING BACK (VOICES)

Incontri ravvicinati

Incontri ravvicinati

Turning Back (voices), spettacolo della compagnia veneziana Farmacia zoo:è, firmato nella regia da Carola Minincleri e Gianmarco Busetto, sperimenta e mette in scena una parata di umanità borderline. C'è la sanità e c'è la pazzia, c'è la pacatezza e c'è l'eccesso. C'è un momento in cui gli estremi quasi si toccano o, perlomeno, si avvicinano, in cui la follia si siede accanto alla cosiddetta normalità. E questa normalità, così sicura, così protetta, così “borghese”, viene presto messa in discussione e aggredita, come fosse un casa di legno in balìa di un tornado.
Nessuna resistenza, nessuna opposizione, solo l'attesa che tutto si plachi e torni come prima. Si cerca sempre di rientrare nei ranghi e dimenticarsi che non tutti siamo “sani”. Così lo spettatore si siede sulla propria poltroncina, sicuro di assistere ad uno spettacolo di teatro, certo della propria (e legittima) intoccabilità. Invece la scena si fonde con la platea, e il palco all'inizio è vuoto, se non fosse per un microfono che si erge nel mezzo. Gli attori fuoriescono dai lati, da dietro, sono già in mezzo al pubblico, si avvicinano, si allontanano, alcuni tentennano, si muovono a rallenty, altri scattano e farneticano parole senza senso, sfiorano le teste di un pubblico sorpreso e timoroso. Ci si guarda attorno e si scopre che i matti sono tanti, tutti in camice bianco, qualcuno in pigiama. Uno alla volta, raggiungono il palco e poi il microfono, totem tanto agognato quanto faticosamente conquistato. E si liberano, dicono quello che devono dire, raccontano, ripetono le stesse cose, balbettano, urlano, bisbigliano, si alternano in questo “Zelig” a volte comico, a volte tenero. Sussurrano la loro umanità, quella che si portano dentro, nel loro mondo profondo e inaccessibile. Il microfono diviene il mezzo per aprirsi a un'umanità che da sempre li ignora e li evita, un piccolo e forse insignificante riscatto, un gesto di libertà che ardisce ad affermare se stessa. Non c'è musica nel mondo dei matti, perché la musica la creano loro, improvvisano Sanremo con un Ciao amore, ciao che ci suscita malinconia e tenerezza, poi corrono tutt'intorno in un cerchio perfetto ma monotono come le loro vite, sempre uguali e ripetitive. Ricordano aneddoti o semplicemente li inventano di sana pianta, ma non importa perché non c'è confine tra realtà e finzione nel mondo dei matti. Una cosa basta che sia raccontata che per tutti è veramente accaduta. L'importante è che emozioni, che li faccia trepidare, stare in ansia, distrarre, ridere a crepapelle o piangere come bambini.
Lo spettacolo, semplice nella sua struttura, trasmette l'idea di regia collettiva e work in progress; lo spettatore, ospite di uno dei tanti immaginabili ospedali psichiatrici, viene messo di fronte a una sorta di proiezione della sua vita interiore. E' come se ogni personaggio in scena fosse un granello della sua insanità nascosta, una scintilla di follia che rimane sopita sotto una superficie di sedata armonia. Ed esce dalla sala turbato, scosso, meditando se esiste o meno, nei recessi della propria anima, un piccolo io folle e “fuori di testa”, come i fantasmi vestiti di bianco che per un'ora ci hanno regalato la loro spontanea sincerità.

Visto il 15-01-2013
al Primavera di Vicenza (VI)