Prosa
UNA DONNA SOLA

Una regia troppo ingombrante

Una regia troppo ingombrante

Una donna sola è un monologo scritto da franca Rame e Dario Fo nel 1977 e fa parte di una serie di monologhi che compongono lo spettacolo Tutta casa, letto e chiesa nel quale Fo-Rame indagano sulle servitù sessuali della donna, come spiega Franca Rame nell'edizione pubblicata a testo nel 1985.

In una donna sola Franca Rame interpreta Maria, una casalinga che conversa con una dirimpettaia immaginaria attraverso l'altrettanto immaginaria finestra collocata nella quarta parete. Durante il dialogo/monologo apprendiamo che Maria è chiusa a chiave dal marito, che le impedisce di uscire da quando l'ha sorpresa a letto con un giovane universitario che l'uomo aveva assunto per impartirle lezioni di inglese. Chiusa in casa, tra i lavori casalinghi, un cognato ingessato dalla testa ai piedi che la palpa, un maniaco che le dice oscenità al telefono, un guardone munito di binocolo che la donna minaccia con un fucile, un creditore in cerca del marito, il figlio neonato che richiama la sua attenzione piangendo e l'amante giovane venuto a concupirla attraverso la porta che è riuscito ad aprire con un chiodo ricurvo Maria decide di uccidersi col fucile invece, dietro suggerimento della dirimpettaia, decide di ribellandosi. Il monologo si conclude con Maria che aspetta il rientro del marito con il fucile puntato contro la porta.

Una donna sola, cucito addosso a Franca Rame, ha la sua forza da un lato nell'ironica e sarcastica, consapevolezza del personaggio femminile che solo apparentemente è svagato e ignaro di quanto le accade, mentre, dalle considerazioni che fa, dimostra di essere pienamente presente a se stessa e cosciente del patriarcato nel quale è costretta a vivere (come quando spiega alla dirimpettaia, che le consiglia di chiamare la polizia per denunciare il guardone, che le forze dell'ordine finirebbero con arrestare lei per atti osceni in luogo privato esposto al pubblico). Una ironia nel raccontare alla dirimpettaia le sue vicissitudini, con la quale Maria contrappone alla sessualità agita dai maschi, masturbatoria (l'amante giovane che le prende una mano attraverso la porta semiaperta), prevaricatrice (il sesso fatto col marito durante il quale dice di sentirsi adoperata) e pornografica (gli ingrandimenti anatomici del corpo di ragazze nelle riviste porno del cognato che in un primo momento Maria non riesce nemmeno a riconoscere)  la propria sessualità, che è strumento di autoemancipazione e di scoperta del mondo (come l'amore e il sesso che scopre tra le braccia del giovane studente).

Dall'altro lato il monologo deve la sua forza ai vari registri interpretativi - che costituiscono per l'attrice un vero tour de force - coi quali restituire i diversi livelli nartrativi del monologo:  il fatto di dover parlare sempre come se si stia rivolgendo alla dirimpettaia (quindi con un tono di voce sempre un po' urlato), quello che le accade nell'appartamento, che richiede anche una complessa capacità fisica e performativa visto che Maria rimane incastrata nella porta posta di quinta, viene concupita dal ragazzo che le prende una mano per portarsela sull'inguine,  interagisce con il cognato che rimane sempre fuori scena (tranne nel finale) e il racconto di quello che le è capitato (dal cognato palpatore alla prima notte di nozze alla storia d'amore con l'universitario e successivo tentato suicidio); livelli narrativi che restituisce solo con il tono della voce trattandosi di un monologo.
Insomma un testo complesso pur nella sua apparente semplicità.

Purtroppo la messinscena di Enrico Maria Lamanna e l'interpretazione di Rosalia Porcaro non sono all'altezza della situazione.
Porcaro interpreta Maria con una indolenza e una mancanza di verve amplificate da un accento napoletano che trasforma sensibilmente il personaggio da donna consapevole e sardonica a fimmena fannullona e rilassata.
Una rilassatezza nel restituire le battute e una scarsa attenzione a differenziare i diversi livelli narrativi di cui si è detto, che vengono restituiti da un unico registro recitativo che non cambia mai, da inizio a fine monologo, tradendo una recitazione tropo attenta a dire la battuta e poco a restituire le motivazioni interne che portano a quelle parole.

Porcaro compie poi un errore grossolano, la cui responsabilità è del regista che non glielo ha corretto: guarda verso il pubblico invece che oltre la platea rivolta alla dirimpettaia con la quale dialoga, così la dirimpettaia scompare e il pubblico non crede più nella sua esistenza.
Tutti i commenti fatti da Maria alla dirimpettaia, tute le risposte di Maria ai commenti della dirimpettaia (che, naturalmente, non sentiamo, ma deduciamo solamente dalle stesse risposte della protagonista) diventano gigionerie  fatte da una donna sola che il testo vuol far piacere al pubblico.

Così recitato e messo in scena la denuncia del patriarcato fatta nel testo si svilisce a commedia comica dove si ride di quello che capita alla donna e non dei maschi che le impongono il loro sopruso sessuale.

La regia interviene sul testo a gamba tesa come la voce tecnologica che dà a Maria la linea telefonica ogni volta che in scena c'è una telefonata, presa dalla cuffia che la donna ha all'orecchio, giustificando così il microfono che amplifica la voce dell'attrice, oppure i siparietti fatti dalla stessa voce di prima che ora ammannisce esercizi di visualizzazione new age (che nel testo non ci sono), inutili visto che spezzano il ritmo già stentato dell'esecuzione,  cancellando tutte le scene mimate, quelle che sostengono fisicamente il parossismo verso cui il monologo giunge nel finale liberatorio e surreale, non giustificando più la ribellione iperbolica di Maria (nel quale spinge il cognato con la carrozzina giù per le scale) e il fucile puntato verso la porta dalla quale entrerà il marito, che sono evidentemente simboliche nella loro iperbolicità e che invece Lamanna si preoccupa di restituire solo dal versante concreto del gesto violento.

Così laddove nel testo Maria cerca di attirare l'attenzione del guardone, ammiccando verso la finestra, prima di sparargli col fucile Porcaro gli fa sparare subito,  senza la ben che minima motivazione.

D'altronde tutto nel finale è pasticciato. Là dove il testo si conclude con Maria che aspetta il marito con fucile in mano Lamanna le fa sparare all'uomo, continuando un'azione che nel testo originale finiva elegantemente con una attesa che non lasciava dubbi, e che poi non sa come terminare. Infatti non finisce. Mentre l'attrice si muove, nel semibuio della scena, senza sapere bene perchè, una didascalia  (un'altra aveva annunciato, a spettacolo già iniziato, come in un telefilm dopo un prologo, il titolo del monologo, autore e autrice  e regista)  annuncia un altro monologo: Stupro. non presente in cartellone.

In quest'altro monologo, del 1979,  Franca Rame racconta il vissuto interiore di una donna mentre subisce uno stupro da parte di tre uomini più un quarto che si limita a tenerla ferma. Uno stupro che Rame subì veramente da parte di quattro fascisti, come gesto punitivo (Sic!)  per la sua militanza politica di sinistra.

Rosalia Porcaro è molto brava nell'interpretare il testo nel quale l'apparente impassibilità della descrizione meticolosa restituisce l'umiliazione, l'impotenza e l'orrore di uno stupro subito.

Una credibilità che Porcaro ottiene nonostante una regia ingombrante ed a dir poco eccessiva che le rema contro per tutta l'esecuzione.

Lamanna  inserisce, e non capiremo mai il perchè, una serie di imbarazzanti, invadenti e inutili orpelli sonori a sostegno esornativo di quando detto nel monologo: se la donna stuprata parla di una musica alla radio sentiamo una canzone (che però non rimane per tutto il monologo ma va e viene), quando gli uomini si accendono una sigaretta sentiamo il rumore di un fiammifero, le incitazioni a farla godere sono dette da una voce maschile distorta, etc.
Il monologo interiore di una donna che subisce una violenza talmente devastante che dopo non ce la fa a denunciare subito lo stupro, perchè sa quali domande la polizia le avrebbe fatto (e lì le domande esplicitate da voci maschili sono l'unica volta in cui questa idea di regia avrebbe avuto un senso) diventa occasione per una serie di siparietti di commento dai quali gli stupratori entrano nella scena diventano co-protagonisti dello stupro che, così, viene trasformato, suo malgrado, da denuncia di un crimine a rievocazione oleografica di un delitto.

Una regia narcisista che deve imporsi ad ogni costo a discapito dell'attrice e anche a rischio di sovrapporsi al testo, cancellandolo di significato per tacere dell'altalena (che scende dall'alto) sulla quale appena scaricata dal furgone dove si è consumato lo stupro, Lamanna fa sedere Porcaro: solo un uomo può pensare di far dondolare una donna che ha appena subito uno stupro.
 

Visto il 14-01-2014
al Garbatella di Roma (RM)