Prosa
VENERE E ADONE

Venere/Adone Londra 1593…

Venere/Adone

Londra  1593…
Venere/Adone Londra 1593. Impera la peste. I teatri vengono tenuti chiusi. Ha inizio il grande viaggio di un William Shakespeare giovanissimo dentro l'animo umano. William Shakespeare dedicò al suo protettore, il giovane conte di Southampton, il poemetto Venere e Adone, che non solo fu la sua prima opera ad essere stampata, ma fu anche quello che potremmo definire un successo editoriale: un piccolo capolavoro, un concentrato di arguzia, comicità farsesca e sensualità. I suoi 1194 versi, legati da un severo impianto, si dipanano con una spiccata qualità drammatica, che già alla semplice lettura consente di “ vedere e udire ogni cosa” (Coleridge). Partiamo dalla classicità più canonica: la cultura greca celebra in Zeus il principio divino in grado di educare gli uomini attraverso la manifestazione in "ambiente controllato" degli istinti, delle pulsioni e della volontà di autoaffermazione (libido). La competizione agonistica, lo sviluppo dei talenti corporei e la ricerca della perfezione psicomotoria rappresenta il primo atto di un lungo processo di contenimento della pulsione animale all'interno della psiche. Ma quando i tempi dei giochi si esauriscono, allora Zeus invia di volta in volta Eros, Amor ed Ermes a risvegliare nell' anima la passione per le emozioni (Eros e Psiche), i sentimenti corporei (Venere e Adone) e la conoscenza della mente umana (Zeus e le amanti). L'educazione alla consapevolezza sensoriale, principio fondatore di ogni vera coscienza di sé, avviene naturalmente attraverso l'esperienza ludica ed estetica (Eros/Cupido), l'esperienza creativa e amorosa (Amor/Cupido) e infine riflessiva e meditativa (Hermes). Il poema è centrato sui due personaggi, la dea Venere ed il giovane, efebico Adone, e si svolge in uno stesso luogo, nel tempo che intercorre tra l’alba e il tramonto dello stesso giorno, rispettando la più classica regola di unità teatrale. Semplicissimo il prodromo: Adone, nato dall'unione incestuosa tra Cinira, re di Cipro, e sua figlia Mirra, era un giovane bellissimo, del quale Venere, graffiata involontariamente da una delle frecce di Cupido, si innamorò perdutamente. Lo schema mitologico sviluppato da Shakespeare è quello ripreso da Ovidio nelle Metamorfosi , simile a quello che unisce Atteone e Diana, o Ippolito e Fedra, e si è ipotizzato che Shakespeare si sia ispirato all'omonimo dipinto di Tiziano, nel quale è rappresentata la contrarietà di Adone all'abbraccio della dea. Questo il punto di partenza di Valter Malosti per una ricerca sulle variazioni, le declinazioni e le auto-contraddizioni del tema ‘amore’. Valter Malosti è qui attore-traduttire-regista di una poesia incalzante e febbrile. Dietro lo schermo di una filosofia della natura, non esservi felicità che in ubbidienza a essa, è descritta una passione senza condizioni. La rappresentazione proposta da Malosti ha un andamento lento, quasi sacrale dove si mescolano assieme passione e morte, desiderio e sangue. Lo spettacolo rimanda ad una tragicommedia di parole e maschere. Sulla nuda scena, un surreale e cangiante vuoto un carrello mobile, unico elemento, a citazione della tragedia classica. Su questo carrello escono Venere e Adone, già avviluppati nell'abbraccio fatale che segnerà la morte di lui e la disperazione di lei. Tre personaggi: la musica, un affabulatore tuttofare, un pupo-feticcio, bellissimo ed inquietante allo stesso tempo. Quando non è Venere a riempire di sé tutta la scena, è Adone, muto totem in trance, un po' scostante ma dal corpo flessuoso (Daniele Trastu), che, quasi molle creta, modella lo spazio con evoluzioni, sussulti somatici, tentativi di sfuggire al divorante abbraccio della dea. In un’atmosfera rarefatta Venere androgina alterna momenti di gentilezza ad altri di furia, incarnata da Malosti con accento napoletano ed un leggero travestimento femminile, profondo e sottile, finemente ambiguo, vestito dalla sensualissima varietà barocca del linguaggio poetico. Quale “dea-macchina”, con sorprendente plasticità ci fa entrare in una sorta di labirinto di specchi, di una progressiva promiscuità di identità, di amore pazzo e viscerale e di gioco perverso. I controllatissimi movimenti dei corpi danno volumetria e plasticità ai suggestivi quadri che si susseguono, e con l’estrema riduzione dello spazio fisico d’azione esaltano la precarietà in un infinito rituale di corteggiamento, dove la fissità rimanda alla mancanza di sviluppo della storia. Malosti attraverso questa macchina implacabile, che stringendo sempre più la sua morsa rivela un'umanità disperata, conduce un lavoro sospeso tra tradizione e ricerca alla scoperta di un teatro sensibile, dove l’emozione e il corpo dell’attore vogliono essere il punto focale del fare teatro, senza rinunciare ad una spiccata attenzione per le arti visive e la musica. Quest’ultima è in questo caso quasi un personaggio. Non opera parallela ma raffinato passo a due integrato di gesti ed improvvisi mutamenti psicologici, le musiche (Louis Andriessen, Antony, Aphex Twin, Craig Armstrong, Luciano Berio, Cathy Berberian, John Blow, Gavin Bryars, John Cage, Death Ambient, Stuart Dempster,Gyorgy Ligeti, Bruno Maderna, Michael Nyman, Luigi Nono, Terry Riley, Nino Rota, Alan Splet, Karlheinz Stockhausen, Thom Willems) in raffinato contrappunto sottolineano le variazioni ritmiche della versificazione e contribuiscono alla caratterizzazione dei singoli personaggi, si integrano al testo lirico-drammatico aumentandone la suggestione plastica di chiara citazione alessandrina. Bologna, Teatro Arena del Sole, 3 Marzo 2009
Visto il
al Officina degli Anacoleti di Vercelli (VC)