L'occasione è importante. Vedere a teatro Isa Barzizza (ottant'anni da poco, li ha compiuti lo scorso 22 novembre, auguri!) in Verso la Mecca, un testo (che porta in giro in tutta Italia da 3 anni) che Athol Fugard, il grande drammaturgo sudafricano, ha scritto nel 1984, quando l'apartheid era ancora in vigore, e che ha come protagonista Helen Martins, una donna realmente esistita vissuta nella comunità di New Bethesda, un villaggio sperduto nella grande regione semi-desertica del Karoo, in Sudafrica la quale, separatasi e rimasta sola a nemmeno 50 anni, iniziò a fare sculture per quasi un trentennio, suicidandosi nel 1975 bevendo soda caustica. Le sue sculture, per sua volontà, andarono a formare un museo.
Il testo pur distaccandosi dalla realtà coglie l'occasione per fare di Helen un simbolo di libertà e, al contempo, vittima del perbenismo cristiano.
Lo spettacolo, ambientato nel 1974, inizia stentatamente tra molti discorsi e poca sostanza, perdendosi in dettagli inutili che poco o nulla ci dicono dei personaggi o della loro situazione. Helen riceve la visita inaspettata di Elsa, una ragazza giovane (Sua nipote? Sua figlia?) che scopriamo solo in seguito essere una sua amica, con la quale non si vede da qualche anno, accorsa da lei in seguito a una lettera che Helen le ha spedito e della quale Elsa vorrebbe parlare mentre Helen preferisce di no. Elsa tratta Helen con l'insolenza di una nipote viziata e superficiale, ma scopriamo che le vuole bene quando preoccupata, le chiede spiegazione della lettera, nella quale la donna parla di temere di cadere nelle tenebre (un'allusione al suicidio?). Helen le racconta di malavoglia che Padre Marius vuole metterla in un ospizio e rilevare casa e terreno (per interesse?). Dalla conversazione tra le due amiche, con riferimenti mai troppo espliciti (come accadrebbe nel mondo reale) capiamo che Helen è vedova, che ha iniziato a fare la scultrice dopo la morte del marito, che ha smesso di andare in chiesa (con grande soddisfazione di Elsa), e che questo le ha causato l'isolamento, prima, e la rivalsa da parte della comunità locale poi, che la prende in giro, la considera pazza e le lancia pietre.
Marius ed Elsa si scontrano ma un incidente domestico che Helen le aveva nascosto fa credere anche alla giovane che forse davvero l'anziana donna sia incapace di vivere da sola e necessiti di attenzioni continue. Finché Helen racconta, in un monologo nel quale Isa Barzizza è in un continuo stato di grazia, di come dalla morte del marito si fosse sentita seppellita con lui (il gesto di Padre Marius di chiudere le tende per nascondere all'esterno il suo dolore vissuto come il gesto di un seppellimento) e di come invece una candela che, spentasi, si era riaccesa da sola, l'aveva fatta fantasticare e viaggiare con la mente fino alla Mecca, dove i re magi orientali discutevano di scienza. Da allora l'ispirazione artistica, le sculture fatte con materiali di scarto, cariche di simboli religiosi, ma niente affatto spirituali quanto, anzi, molto terrene e la rinascita alla vita proprio quando per la società bigotta e cristiana del luogo la sua vita fosse appena terminata. Ma adesso che è anziana e le mani non sono più quelle di una volta, ora che l'ispirazione artistica l'è venuta a mancare, Helen dubita di poter continuare da sola.
Per denunciare le mostruosità compiute dai bianchi Fugard non mette in scena l'apartheid contro i neri (che sono presenti nei discorsi di Elsa e di Helena, personaggi minori ma importanti nel percorso di presa di coscienza di entrambe le donne) mette in scena la società cristiana occidentale che relega la donna a un ruolo esornativo e considera Helen eccentrica non, come scrive Mirella Caveggia su Noi donne, per aver forgiato opere strampalate, antropomorfe e animalesche, dei mostri insomma (...) stranezze [che] le hanno attirato l’antipatia e l’avversione della società locale, una manica di bigotti connotati da una pacata ottusità (sic!) ma perché Helen invece di seppellirsi socialmente col marito morto e fare la vedova ha iniziato a vivere, a fare sculture, a intessere amicizie con donne più giovani (Elsa) e anche con donne nere.
Nel momento in cui Helen si emancipa dalla vita di moglie (le tenebre cui alludeva nella lettera indirizzata ad Elsa son quelle in cui ha vissuto accanto a un marito che non amava andando in chiesa per convenzione), nel momento in cui , rimasta vedova, diventa per la prima volta, una donna libera (parola dinanzi la quale Padre Marius trasale dicendo che non gli è mai piaciuta...) Helen viene vista dal resto della comunità cristiana una diversa e come tale trattata.
Sarà proprio Elsa a confessarle di essere invidiosa della sua libertà (Marius se ne va, impotente); Elsa, professoressa ribelle e per questo sanzionata, che si sente priva di una vera direzione e che, avendo rinunciato a una gravidanza, si rammarica quando vede una madre nera con la figlia in spalla, fa capire a Helen che dalle tenebre è emersa per sempre e non può tornarvi nemmeno in vecchiaia, deve solamente prenderne atto e andare avanti (curarsi, accettare la vecchiaia ma non per questo rinchiudersi in un ospizio) ultima tappa di un cammino iniziatico che la porterà al rango di maestro (parole sue).
Un testo magnifico (tranne le lungaggini dell'inizio di cui si è detto), ben interpretato (meravigliosamente da Isa Barzizza, un po' meno da Maurizia Grossi e Giovanni Lombardo Radice che, con la loro recitazione non sanno spiegarci subito il perché del comportamento dei propri personaggi, ma "meno che meraviglioso" non vuol dire "cattiva recitazione"...) con una regia (nei primi allestimenti del 2006 di Manuela Giordano ora la messa in scena è firmata dalla stessa Barzizza) forse un po' ingessata che non sa trovare spunti teatrali in un testo che sembra radiofonico per quanto la parola sia l'unico veicolo di comunicazione, ma che sa regalare, ha chi ha la pazienza di seguirlo fino alla fine una riflessione sulla vita, sulla donna e sulla società cristiana (quella che molti vorrebbero l'unica e la migliore di tutte) attualissima. Uno spettacolo che tutti dovrebbero vedere a iniziare dalle giovani ragazze che società e mass media continuano a crescere come mogli affettuose dei maschi di domani in un altro apartheid che non è in Sudafrica ma qui, da noi, in occidente.
Visto il
09-12-2009
al
Due
di Roma
(RM)