Prosa
VOCAZIONE

Vocazione: essere o non essere attore

Vocazione: essere o non essere attore

“Vocazione”, nuovo lavoro di Danio Manfredini, è un amaro e controverso viaggio nella vita dell’attore, compiuto attraverso frammenti di celebri opere d’autore i cui i protagonisti sono attori di teatro e da frammenti del suo stesso repertorio come autore. È una riflessione intorno al ruolo e alla professione dell’attore, all’inquietudine e alla paura che accompagna tutti gli attori che intraprendono la strada del teatro.

È proprio questa irrequietezza, questo costante senso di “disequilibrio”, di ansia e di disorientamento perenne il filo conduttore attraverso cui si sviluppa lo spettacolo di Manfredini, dove l’attore “traccia un quadro sulla figura dell’attore teatrale nei diversi stadi che attraversa durante il suo percorso”.

Una riflessione sull’attore profonda, tormentata, esibita platealmente e dichiarata  a gran voce, attraversata da una vena di tristezza e malinconia, con dei momenti di estrema autoironia che si alternano a momenti di intima e delicata confessione sull’impossibilità di essere altrimenti, sull’incapacità di rifiutare una ‘vocazione’, moto  interiore incontrollabile dell’animo al quale è impossibile non aderire.
“Io faccio l’attore, ma a chi importa se io ogni sera mi mangio la vita!”
Il teatro è Vocazione, o meglio è anche vocazione.

La costruzione drammaturgica di Manfredini è una sorta di collage di brani diversi, frammenti di opere celebri che evocano una serie di figure di teatranti in declino, alle prese coi propri fallimenti, i propri dubbi esistenziali, i bilanci e le paure di una vita, soli di fronte all’inesorabile scorrere del tempo, alla vecchiaia e alla morte.
Da questo punto di vista il concetto di vocazione assume tratti paradossalmente amari, diventa quasi una condanna, un qualcosa di ineluttabile che non si può contrastare: una sorta di discesa, di un precipitare umano e professionale.

Questo spettacolo è certamente una prova di bravura e tecnica attoriale, che a tratti però tende a diventare eccessivamente virtuosistico e manierista, in alcune “furbizie si mestiere” come il finale o l’inizio, con il brano Ridi pagliaccio che evoca subito un’atmosfera un po’ pietista e patetica – nel senso migliore del termine, che accompagna tutto il lavoro. Il resto dello spettacolo è da manuale, anche negli eccessi, come l’uso delle maschere di lattice che aumentano il senso del grottesco e del vuoto. “A cosa serve fare gli spettacoli? A niente. È per quello che li faccio” dice Manfredini, creando un’opera che muovendosi da canzoni note a parole sue, da brani autobiografici a pezzi celebri esalta la caduta, il glorioso declino.
Che si tratti delle parole di Bernhard, Harwood, Čechov o Kane - per citarne alcuni – o delle parole dell’autore, di momenti lirici o scene, tutto lo spettacolo ruota intorno alla condizione dell’essere attore, sottolineando i labili e fragili confini tra palcoscenico e realtà.

Si comincia con la Minetti di Thomas Bernard, anziano condannato alla recita, e poi il Gabbiano di Cechov come esempio del fallimento dell’introspezione.
Il percorso si declina poi nella crudeltà di Testori e della sua Conversazione con la morte e nelle vesti della sfiorita e tormentata Elvira di Un anno con 13 lune di Fassbinder. Parodia macabra e sinistra l’inversione di genere, dove “lui diventa lei e viceversa”, come in in Psicosi delle 4 e 48 di Sarah Kane, nella Nina de il Gabbiano e nel “diverso” servo di Scena di Ronald Harwood. L’Amleto invece è un danzatore butoh, il suo è un canto stanco - chiara l’allusione ai tre Studi per una crocefissione.

Con la presenza del suo compagno di lavoro storico Vincenzo Del Prete, in scena Manfredini è pura poesia fisica. Il suo è un teatro che parla prima con il corpo e poi con la voce. È poesia incarnata nello squilibrio di un corpo che non è più quello di una volta, un corpo invecchiato, imperfetto, ma proprio per questo sublime e vero. Un corpo che intraprende un folle e delirante viaggio dantesco nei tormenti di un attore che ha una parte in cui stare per forza. L’attore sul palco è come una prostituta che vende insieme al corpo anche pezzi della sua anima.

Danio Manfredini abita la scena dall’inizio alla fine, canta canzoni originali in stereo durante tutto lo spettacolo, e grida «sono adulto, voglio smetterla di mettere vestiti non miei, di mascherarmi», eppure, progressivamente passando una maschera all’altra, da un abito altrui all’altro espone il suo corpo e svela il suo volto, diviene sé stesso.
Manfredini ci mostra “la figura dell’artista nella sua essenza umana scarna”, un’essenza cruda che colpisce lo spettatore, non lo lascia indifferente, lo scuote, reclama a gran voce la sua attenzione, Manfredini si mette a nudo – o meglio mette a nudo l’attore, esprime sentimenti ed emozioni, paure e tormenti, si lascia andare.
Detto ciò, lo spettacolo nell’insieme non risulta pienamente riuscito, forse a volte c’è troppo, troppa, tanta materia, è evidente il bisogno di dire troppo, ci sono momenti più riusciti di altri, momenti di estrema poesia toccanti ed emozionanti, altri sfiorano la parodia, ma alla fine forse viene a mancare un’omogeneità d’insieme, dovuta forse alla costruzione estremamente frammentata.

Visto il 15-04-2015