Lirica
WERTHER

Quando si accinse a scrive…


	Quando si accinse a scrive…

Quando si accinse a scrivere I dolori del giovane Werther, concependolo di getto ai primi del 1774, Goethe non aveva ancora compiuto venticinque anni: fu il suo un esordio letterario fulminante, simile a quello che otto anni più tardi avrebbe visto un altrettanto giovane Schiller conquistare clamorosamente le scene teatrali tedesche con I masnadieri. Due storie entrambe aventi dei giovani protagonisti, cariche di impeto e di passione, ed in comune un tragico epilogo. A differenza però del dramma schilleriano, lavoro pienamente fantastico, il Werther contiene al suo interno non pochi elementi autobiografici, rifusi e trasfigurati in quello che presto divenne un libro di incredibile successo: con un inconveniente sgradevole, ahimè, se si giunse ad accusarlo di una maligna influenza sui giovani per l'ondata di suicidi ispirati dal volontario annientamento del protagonista; cosa che portò al provvedimento, in alcuni paesi, di proibirne la vendita. “Effetto Werther”, venne poi definito nell'ambito delle scienze sociali, divenendo un caso di studio; un effetto naturalmente non voluto, perché Goethe stesso affermò più tardi che nello scriverlo s'era sentito «alleggerito ed illuminato per aver trasformato la realtà in poesia», come in un processo di autoanalisi, mentre certi suoi lettori al contrario «si confusero, credendo di dover tramutare la poesia in realtà, imitare un tal romanzo, e poi spararsi». E concludeva che «l'effetto di questo libro fu grande, anzi enorme, specialmente perché comparve nel tempo giusto. Perché, così come è sufficiente una pagliuzza per far scoppiare una potente mina, anche l'esplosione che si produsse nel pubblico risultò così tanto potente; perché il mondo dei giovani era già minato, e la commozione fu così grande perché ciascuno giungeva allo scoppio con esigenze esagerate, con passioni inappagate, con dolori immaginari». E' singolare constatare poi che, agli antipodi di questo suo sconsolato personaggio, il grande scrittore tedesco seppe condurre invece una vita ben lunga, prolifica e ricca di interessi, arrivando a sfiorare la rispettabile età di ottantatré anni anni.
Testo di enorme diffusione, pareva un candidato ideale per una trasposizione  teatrale; ma avendo carattere di romanzo epistolare, molte ed evidenti erano le difficoltà di trarne un funzionale libretto, e costruirci sopra un'opera. La sfida venne raccolta solo dopo un secolo grazie a Massenet il quale, dopo il grande successo della Manon, andava alla ricerca di una trama che assecondasse la sua indole di creatore di splendide mélodies e la ricchezza della sua tavolozza di colori strumentali. La spinta in questa direzione gliela offrì il suo editore Hartmann, convinto assertore dell'idea di trasportare I dolori del giovane Werther sulle scene liriche. Qualche inevitabile libertà nei confronti di Goethe i librettisti – Milliet, Blau, lo stesso Hartmann – in realtà se la dovettero prendere, al fine di ottenere un intreccio che camminasse con le proprie gambe; quanto al processo di composizione, finì per costare a Massenet non poche fatiche, nel succedersi di riscritture e modifiche, fintantoché tutte le tessere del suo mosaico musicale non andarono al loro posto.
Werther si presenta come un'opera fondata essenzialmente su di un susseguirsi di duetti, ultimo dei quali il lungo, drammatico epilogo finale che ne costituisce la pagina più bella; appare però tutta psicologicamente imperniata sul protagonista, ruolo la cui scrittura pare ideale per un tenore 'di grazia', come furono Tito Schipa, Ferruccio Tagliavini, Alfredo Kraus, Juan Oncina, come lo è Giuseppe Sabbatini; ma non del tutto estranea alle vocalità talora sin troppo prodighe di Giuseppe di Stefano un tempo, e Marcelo Alvarez oggi. Non è un elenco casuale; ho citato infatti quanti sono stati presenti, dal 1943 ad oggi, nelle precedenti edizioni triestine di questo capolavoro: un palmarés invidiabile di interpreti, che testimonia la costante attenzione del Teatro Verdi per questo titolo. Proprio per questo l'aver scelto, per questa edizionedi fine 2015, un tenore assolutamente inadatto in siffatto repertorio, quale è Mickael Spadaccini, rimane poco comprensibile: perché il cantante italo-belga ha una voce incapace di espandersi, di trovare le giuste sfumature, di accarezzare e addolcire come si deve le frasi; una voce che, senza il calore di un vero fuoco interiore, non sa conquistarsi il necessario respiro lirico. Un Werther senza il suo Werther, vien da dire, un'incongruenza ed una limitazione imbarazzanti: e poco conta se il resto della compagnia invece appare pressoché irreprensibile, e se la direzione è quella asciutta e precisa, capace di evocare tutte le nuances ed i vividi colori della partitura - anche nelle bellissime pagine orchestrali, rese con grande cura, in elegante souplesse – che ci viene offerta da Cristopher Franklin.
Charlotte era impersonata dal giovane mezzosoprano russo Oleysia Petrova, al suo debutto in Italia: esordio promettente, perché può giocare la carta d'un timbro intenso e vellutato, ed offrire un modulare luminoso e limpido; un canto intenso e nobile, il suo, caricato di bellissimi accenti melanconici, nel quale emerge una considerevole finezza di fraseggio. Anche l'altra figura femminile, quella di Sophie, era ben delineata dall'adolescenziale freschezza e dall'inappuntabile condotta vocale della sua conterranea Elena Galitskaya; Albert era impersonato con correttezza e adeguata convinzione interpretativa dal baritono bielorusso Ilya Silchukov. Ben condotte tutte le parti fianco, sostenute da Ugo Rabec (Le bailli), Dario Giorgelè (Johann), Alessandro D'Acrissa (Schmidt), Giuliano Pelizon (Brühlmann), Silvia Verzer (Kätchen). Orchestra del Verdi, come al solito, molto efficiente; e pure ineccepibile – circostanza non sempre  garantita in teatro – il coretto della prole del Borgomastro, e ciò grazie all'intervento degli intonatissimi Piccoli Cantori della Città di Trieste diretti da Cristina Semeraro.
Visivamente, abbiamo trovato uno spettacolo lineare e senza velleità innovative, in grado però di persuadere in pieno lo spettatore. La regia di Giulio Ciabatti procede con semplicità e speditezza, muovendosi nella trama senza deviazioni e perseguendo l'intento di costruire un'esposizione narrativa convincente; un regia ben condotta, che raggiunge il suo punto culminante nel desolante finale, costruito da Ciabatti con febbrile espressività. Le belle e tradizionali scene di Aurelio Barbato offrivano allo spettatore corrette coordinate temporali e spaziali, dato che l'epoca rappresentata è, più o meno, quella del testo goethiano; molto eloquente, in specie, la scena della casa di Charlotte dove una straniante assenza di cose ed un livido alone luminoso rappresentavano bene il vuoto interiore dei protagonisti; ispirati alla moda di quel tempo e quindi cronologicamente attinenti i piacevoli costumi ideati da Lorena Marin; luci curate da Claudio Schmid.
Alla recita domenicale alla quale eravamo presenti, ottima l'accoglienza della sala che ha mostrato di aver gradito quanto le è stato proposto. Un certo numero di posti liberi, però, indicava che non appena si devia dai soliti titoli, scema ahimé l'interesse di una parte del pubblico.
Ricordiamo che nella seconda compagnia figurano i nomi di Luca Lombardo (Werther), Carol Garcia (Charlotte), Dušica Bijetic (Sophie), Christian Luján (Albert).
(foto Visualart/ Fabio Parenzan)

Visto il 29-11-2015
al Verdi di Trieste (TS)