Quest’anno ricorre il secondo centenario della morte di Giovanni Paisiello (Taranto, 9 maggio 1740 - Napoli, 5 giugno 1816). Numerose iniziative onorano la memoria del prolifico e geniale compositore, apprezzatissimo ai suoi tempi e poi - come tanti autori della stessa generazione - quasi completamente dimenticato. In gennaio il Teatro Bellini di Catania ha allestito un importante titolo serio del maestro pugliese, Fedra. Il Festival della Valle d’Itria di Martina Franca proporrà in luglio il dramma buffo La grotta di Trofonio. In agosto Nina o sia La pazza per amore, gioiello larmoyant, verrà rappresentata nella versione primitiva in un solo atto a Vadstena (Svezia). Importanti manifestazioni seguiranno in settembre nella città natale di Paisiello nell’ambito della rassegna annuale a lui espressamente dedicata, giunta alla sua quattordicesima edizione.
Il Teatro di San Carlo di Napoli partecipa ai doverosi festeggiamenti con ben due appuntamenti. Il primo è la Zenobia in Palmira in scena in questi giorni nel teatrino di corte; il secondo sarà la ripresa, in novembre, della Grotta di Trofonio, coprodotta con il Festival della Valle d’Itria.
La scelta di Zenobia desta una certa sorpresa. Rappresentata per la prima volta a Napoli il 30 maggio 1790, l’opera, per quanto se ne sa, non fu mai più eseguita. Essa, inoltre, non ha uno speciale rilievo nella vasta produzione paisielliana, all’interno della quale altri titoli possono vantare ben altra fortuna presso il pubblico settecentesco e/o attenzione da parte degli studiosi di drammaturgia musicale. Per restare nel comparto serio, vengono in mente La disfatta di Dario (1776), che ebbe cospicua circolazione; oppure il fondamentale Pirro (1787), che fece scalpore per i finali d’azione; o ancora la sperimentale Fedra (1788) e la complessa Andromaca (1797). A voler pensar male, si potrebbe sospettare che Zenobia sia stata preferita non in quanto capolavoro ingiustamente obliato (di certo non si può sostenere che a Paisiello siano mancati riconoscimenti in vita), bensì perché essa risulta più maneggevole e relativamente meno impegnativa di tante sue sorelle: due atti, solo quattordici numeri musicali mediamente compatti, difficoltà vocali non insormontabili (con una sola eccezione, di cui si dirà), niente cori. Se invece si decide di accantonare le ipotesi maliziose e di esaminare la proposta sancarliana con sguardo obiettivo, si dovrà riconoscere che l’opera ispirata alla regina dei Palmireni, pur entro un impianto tradizionale, contiene molte pagine affascinanti, meritevoli di essere riscoperte. Accanto ad arie di ottima fattura, si possono menzionare ad esempio il breve e agitato duettino Ah che in lasciarti, oh dio (I.9) e l’ampio ed elaborato terzetto Alme superbe e altere (I.10), nel quale gli amanti Zenobia e Arsace, musicalmente solidali, fanno muro contro il furore di Aureliano.
Un nome spicca nel cast del 1790: quello del soprano Brigida Giorgi Banti. Chiamata a creare il ruolo di Zenobia, la cantante era celebre e applauditissima per l’estensione e l’agilità. I colleghi che la affiancarono, pur essendo abili professionisti, non si possono considerare come stelle di prima grandezza nel firmamento operistico del tardo Settecento. E tuttavia, agli esecutori di oggi, tutti i ruoli della Zenobia richiedono una speciale perizia stilistica e una notevole disinvoltura vocale. Tali doti non mancano a Leonardo Cortellazzi, che veste i panni di Aureliano; il tenore mantovano appare un interprete ideale di questo repertorio grazie all’intonazione impeccabile, al bellissimo timbro, alla dizione limpida (tutte le parole sono perfettamente comprensibili, e ciascuna ha il giusto peso e la giusta espressione), alla capacità di cantare in modo incisivo ma senza forzature e all’ottima presenza scenica. A Rosanna Savoia, nella parte di Zenobia che fu della Banti, toccano tre numeri molto impegnativi: non convince la sua interpretazione di Già trionfar tu credi (I.6), nella quale i passi di agilità non sono sufficientemente fluidi e la voce si opacizza fin quasi a eclissarsi nel registro grave; le cose vanno un po’ meglio con la cavatina Ah basta, o ciel tiranno (II.5), unico numero in minore della partitura, e con il “rondeaux” (così lo etichetta Paisiello) Non temer, fra pochi istanti (II.13), ultima uscita prima della frettolosa conclusione dell’opera. Poco si può dire di Tonia Langella, che completa il terzetto degli interpreti principali ricoprendo il ruolo di Arsace: nella rappresentazione vista da chi scrive, la giovane artista napoletana non ha cantato nessuna delle due arie assegnate dal compositore al suo personaggio (a quanto pare, la seconda, Se talora a te d’intorno in II.11 è stata omessa del tutto nell’attuale allestimento, mentre la prima, Se quel caro amabil volto in I.4, è stata tralasciata eccezionalmente per l’indisposizione della cantante) e si è limitata a unire eufonicamente la propria voce a quella di Zenobia nei numeri d’insieme. Tra i comprimari, brilla di luce propria Sonia Ciani (Pubblia), che ha restituito le sue due arie in modo impeccabile e raffinato, unendo insieme perizia tecnica, naturalezza di emissione e capacità espressiva. Brava anche Rosa Bove, che ha dimostrato precisione e vivacità nei panni di Oraspe. Blagoj Nacoski si è fatto apprezzare per il bel colore nell’unico numero previsto per la parte di Licinio, l’aria M’è legge ogni tuo cenno (II.2).
Francesco Ommassini ha guidato con grande sensibilità l’orchestra del San Carlo, impegnata a ranghi ridotti, ottenendo risultati efficaci e puntuali per mezzo di gesti di sobria eleganza. Il direttore veneziano si è distinto in particolare per l’oculata scelta dei tempi, la cura meticolosa del fraseggio e la buona intesa con i cantanti, tutti segnali di un lavoro preparatorio approfondito e condotto con consapevolezza storica ed estetica.
Deludente è invece la regia dimessa e rinunciataria di Riccardo Canessa. Nelle sue mani, Zenobia sembra un reperto archeologico inerte e fragile. Invece di farla rivivere, Canessa la mette sotto una campana di vetro, come se avesse paura di romperla. Vestiti con convenzionali abiti settecenteschi, i personaggi si muovono (poco) in uno spazio spoglio, dominato da un trono e da un’escrescenza rocciosa. Alle loro spalle scorrono - piuttosto casualmente - proiezioni di paesaggi, squarci aerei, quinte teatrali, tendaggi e cancelli. Nessuna dialettica interno / esterno, pubblico / privato: tutta l’azione assume una mesta e indebita dimensione ‘cameristica’, né contribuiscono a renderla più interessante le superflue sfilate di personaggi sul fondo, le uscite anticipate o posticipate rispetto alle prescrizioni del libretto e le esibizioni di oggetti simbolici inutilmente vistosi, come lo scettro che Zenobia maneggia come una mazza da baseball nella sua prima aria.
Tutto ciò, per fortuna, non compromette la godibilità complessiva dello spettacolo, che rappresenta una preziosa occasione di conoscere una pregevole partitura di Paisiello e le coordinate fondamentali del gusto musicale dei suoi tempi.