Prosa
ZIO VANJA

Fabriano (AN), teatro Gentile…

Fabriano (AN), teatro Gentile…
Fabriano (AN), teatro Gentile, Zio Vanja INCAPACITA’ DI VIVERE, CAPACITA’ DI SOGNARE Le luci, per cominciare. Naturalismo. Cambiano a seconda delle ore del giorno e della notte, delle candele e dei lumi, con molto realismo. L’abbaiare dei cani, il ticchettio della pioggia, il rombo dei tuoni, lo sbattere delle imposte mosse dal vento che sibila, il frinire delle cicale, i passi sulla ghiaia del giardino: anche i rumori rispondono a questa esigenza estrema di realismo, contribuendo a dare perfettamente il tempo e il luogo dell’azione. In linea con scenografia e costumi, nell’ambito della più consolidata tradizione interpretativa cechoviana. Tutto sembra uscito da un dipinto russo del finire dell’Ottocento. I colori morbidi e caldi degli abiti vicino ai colori spigolosi e freddi degli interni delle stanze. Le finestre spalancate su un giardino di alti alberi e un’altalena che dondola, pigra, leggera. Un pianoforte tra due porte, che però non suonerà. Tante stanze, camere da letto, sala e salotto, ma ovunque un senso di essenzialità, dignitosa e orgogliosa, quella di chi non ha mai chiesto niente a nessuno ed ha guadagnato con dura fatica quello che, poco o tanto, risulta necessario alla sopravvivenza. La regia entra in punta dei piedi, si affida al testo integralmente, senza nessun intervento invasivo e caratterizzante. Come se il testo si fosse messo in scena da solo. E nel caso di Cechov può essere un bene, indubbiamente. Quello che però manca in questo spettacolo è la prova degli attori. Manuela Mandracchia, dotata di un timbro vocale vellutato, profondo, emozionante, è una brava Elena, agile nel passare con disinvoltura dai toni alleggeriti dei primi atti a quelli più tesi ed emotivizzati degli ultimi due atti, e spicca su un cast dall’accento bolognese e poco convincente in ogni altro ruolo, compreso Alessandro Haber. La trama di “Zio Vanja” ruota attorno ad una tenuta di campagna che appartiene alla famiglia del professor Serebriakov; egli, con la giovane seconda moglie Elena, arriva nella tenuta, amministrata con scrupolo dalla figlia Sonja, nata dal suo primo matrimonio, e da Vanja, zio di Sonja poichè fratello della prima moglie del professore. Tutti si innamorano di Elena e la situazione diviene presto insostenibile. Alla fine Serebriakov e la moglie tornano in città, mentre in campagna si riprende con rassegnazione la vita di duro lavoro per inviare le rendite al professore e farlo così vivere nell’agio. L’allestimento dello stabile bolognese non si discosta per nulla dall’originale. Ma, nonostante questo, non riesce a comunicare il senso di vuoto, di inutilità, di vita sprecata, di tempo trascorso nell’incapacità di viverlo, di impossibilità di vivere il presente, di speranza in un futuro con la certezza che non arriverà mai, di sognare come unica possibilità di vivere. Una rappresentazione, insomma, troppo “esteriore”, che non lascia intuire le tensioni e le emotività che rendono un capolavoro il testo. FRANCESCO RAPACCIONI Zio Vanja, regia Nanni Garella, scenografia Antonio Fiorentino, costumi Claudia Pernigotti, luci Gigi Saccomandi, con Alessandro Haber (Vanja), Manuela Mandracchia (Elena), Anna Della Rosa (Sonja), Nanni Garella (Astrov). Visto a Fabriano (AN), teatro Gentile, il 20 novembre 2004.
Visto il
al Metastasio di Prato (PO)