Il teatro di Cechov è fatto di incontri, separazioni, addii, presenze che riempiono per un momento di frastuono luoghi silenziosi con la certezza che presto passeranno, miraggi e speranze da mantenere vivi senza cercarne il compimento né soprattutto la verifica con la realtà. I personaggi spesso si assottigliano, come fantasmi impalpabili o piuttosto larve provinciali: “i sentimenti si sono addormentati, non voglio niente, non desidero altro che questo niente”. Le stagioni accompagnano le scene e quasi ne dettano il sentimento. La vita resta non vissuta: sognata, cercata senza troppa convinzione: “notte e giorno mi tormenta il pensiero che non ho avuto una vita, ho sprecato il passato e il presente è spaventoso per la sua assurdità”. E ancora: “abbiamo sprecato per sempre quel tempo in cui tutto era possibile”.
Così è anche in “Zio Vanja” nell'adattamento di Marco Bellocchio. La vita operosa ma “in ombra” di Sonja e Vanja viene sconvolta dall'arrivo di Serebrjakov ed Elena che fanno esplodere conflitti e recriminazioni ma soprattutto rendono consapevoli tutti del trascorrere invano delle loro vite.
L'allestimento ha intenzioni naturalistiche, rendendo alla perfezione le atmosfere rarefatte e sospese nell'animo dei protagonisti ma declinate con compiuto realismo nel contesto ambientale. Le bellissime, luminose e ariose scene di Giovanni Carluccio utilizzano grandi tavole grezze che sono sia pavimento che pareti di ambienti non chiusi e identificabili in vario modo, anche grazie ai mobili necessari allo svolgimento delle azioni; un vetro sul fondo crea un effetto di rifrazione che rimanda a suggestioni vagamente oniriche e isola rami secchi e scortecciati che pendono dall'alto, variamente interpretabili ma assai affascinanti. I costumi, parimenti bellissimi, di Daria Calvelli situano l'azione tra Otto e Novecento e declinano i colori in modo funzionale al carattere, privilegiando morbidezze di linee e di toni. Le luci, anch'esse bellissime, di Giovanni Carluccio contribuiscono in maniera determinante al successo della messa in scena, mostrando lo scolorare del giorno nella notte, le ombre del crepuscolo e il chiarore dell'alba e utilizzando soprattutto tagli laterali evitando banali puntamenti sui protagonisti. Le musiche originali di Carlo Crivelli riportano una contemporaneità invero senza tempo: sonorità che non stravolgono il luogo della vicenda ma che la rendono geograficamente universale. A chiudere la parte tecnica i rumori (zoccoli di cavalli, grilli, vento, tuoni) che completano l'effetto realistico.
La regia di Marco Bellocchio è puntuale nei movimenti e nei gesti che sempre supportano e confermano le parole. Nella traduzione utilizzata i tagliolini, simbolo del ritorno all'ordine “cristiano” e quotidiano della casa dopo la tempesta, sono diventati tagliatelle con ben altro effetto sul pubblico. Infatti il regista privilegia gli spunti burleschi del testo e sottolinea il carattere comico di alcuni passaggi che però prendono spesso il sopravvento, finendo per condurre il pubblico alla risata anche in momenti di grande disperazione e vera angoscia, come il tentativo di uccisione del professione da parte di Vanja. Azzeccati i soliloqui in proscenio rivolti verso il pubblico.
Il cast è parso disomogeneo, non riuscendo a creare quella sinfonia unitaria di cui le partiture cechoviane abbisognano, una sorta di “sfumato alveare” in cui tutti gli attori debbono contribuire a comporre un'unica sonorità senza prevalenze né individualismi né difformità di sorta. Su tutti ha dominato, per bravura formale e dominio intimo del ruolo, Anna Della Rosa, la cui intensa Sonja emblematicamente rappresenta la poetica dell'autore e il senso profondo della commedia: la scena in cui cerca di convincere lo zio a restituire la morfina la dottore è probabilmente la più intensa della serata. Michele Placido è un Serebrjakov pieno di sé ma non eccessivo, il cui ingresso in scena da fondo platea riempie il teatro e la vita degli altri come un'apparizione folgorante. Sergio Rubini è un ironico e un po' svagato Zio Vanja, accartocciato su se stesso, che privilegia l'indifferenza e la quasi stravaganza nella condotta all'indagine sulla propria vita. Cattura l'attenzione l'Astrov di Pier Giorgio Bellocchio: lo sguardo scuro e magnetico esprime il tormento del dottore insoddisfatto, il modo di sedere e di parlare con le mani in tasca aumenta esponenzialmente il potere delle parole ma il discorso sull'ecologia appare fatto con troppa enfasi e agganciato a dettagli non contemporanei. Qualche perplessità per l'accento straniero di Lidiya Liberman, Elena annoiata e indolente, oziosa e seduttrice, morbidamente vestita come una sirena di campagna in colori terragni. Lucia Ragni è Maman con incongrue e vistose calze rosse. Completano il cast l'azzeccata balia anziana di Maria Lovetti, il Telegin aitante di Bruno Cariello e il domestico di Marco Trebian.
Teatro esaurito, pubblico divertito, moltissimi applausi.