Andata in scena ad ottobre a Pisa, poi nei teatri del circuito di OperaLombardia ed a Lucca, questa nuova, ampia coproduzione dell'Andrea Chénier di Giordano termina il suo lungo giro, con qualche minimo avvicendamento nei cast, al Teatro Sociale di Rovigo. Dove quale protagonista ritroviamo Samuele Simoncini, che con Angelo Villari ha man mano diviso il ruolo del titolo. Figura che il tenore senese ha affrontato più volte, facendone una sorta di bandiera.
Un Chénier poco poeta, poco romantico
L'Andrea Chénier è un'opera drammaturgicamente poderosa – merito anche del librettista Illica - e musicalmente ricca e varia. Per stare in piedi dovrebbe poggiare su solida direzione e forte regia, va da sé; ma sopra tutto su voci tanto generose nel suono, quanto espressive nel canto. Ora, ampiezza di volume, facilità di squillo e metallica timbratura in Simoncini non mancano, specie nel registro centrale; modesta però è la finezza di fraseggio, in un canto esasperato, sempre spinto all'eccesso. Alla fine, il suo poeta risulta monocorde, con un Improvviso di pura enfasi, ed un «Come un bel dì di maggio» ben poco intimistico.
Un baritono a metà, un soprano eccellente
Kim Gangsoon è un Gérard a due facce. Il baritono coreano esibisce timbro luminoso, voce di buon volume, linea di canto impeccabile e flessibile; ma difetta alquanto nella recitazione. Esegue con il giusto accento e slancio «Nemico della patria»; però «Son sessant'anni » non prende come dovrebbe, poiché in complesso il suo composito personaggio rimane a metà.
Ben altra temperie troviamo in Federica Vitali, una Maddalena portata al limite della perfezione, con vocalità suggestiva e pregnante, corposa nei medi come in alto, dove sale agilmente e e senza perdere spessore. Interpretata, nella sua fragilità di adolescente maturata in fretta, con piena consapevolezza ed adesione psicologica, tramite un variegato fraseggio che dona verità alle sue parole, come nella dolente enunciazione de «La mamma morta».
Sorvoliamo su Alessandra Palomba (La Contessa di Coigny e la vecchia Madelon) per dar giusto merito all'eccellente Bersi di Shay Bloch, al colorito e disinvolto Mathieu di Fernando Cisneros (anche Fleville), ed al buon Roucher di Alessandro Abis. Ottimo impegno anche da parte di Marco Miglietta (L'Incredibile/L'Abate), Gianluca Lentini (Schmidt/ Tinville) e Giorgio Marcello (Il Maestro di Casa/Dumas). IL Coro Arché di Pisa, curato da Marco Bargagna, se la sbriga assai bene.
Un'opera di grande impatto visivo
Dal podio della buona Filarmonia Veneta presiede Francesco Pasqualetti. La sua è una concertazione di alterno spirito: ora molto giudiziosa - a tratti anzi forse un po' guardinga - in altri momenti incalzante, magniloquente, sin troppo volta all'effetto. Nel complesso, comunque, la sua bacchetta funziona bene e tiene salde le fila della narrazione, dominando un lavoro dai ricchi pannelli narrativi.
Il sipario si apre e rivela un fondale dipinto all'antica: il regista Andrea Cigni ci porta non nel salone del castello di Coigny, bensì in un giardino rococò con tanto d'altalena per Maddalena – evocazione d'una celebre tela di Fragonard - dove i personaggi son tutte rigide marionette. E l'irruzione dei mendicanti è moscio episodio.
Tre quadri di grande efficacia
Però poi con gli atti seguenti, grazie anche alle forti scene di Dario Gessati, si muta registro: entriamo in una vera piazza parigina brulicante di folla e di bandiere, e poi nel sanguinario Tribunal révolutionnaire; ed alla fine in un carcere metafisico immerso nell'oscurità, con solo una grata in alto a dar apparente respiro.
Insomma, tolto l'impacciato inizio, il cosciente impegno registico di Cigni si fa poi ben apprezzare, sia per l'estrema attenzione alla recitazione che per l'accorto impiego delle masse, offrendo allo spettatore una narrazione chiara, credibile, eloquente. Costumi d'epoca accuratamente realizzati da Chicca Ruocco; azzeccate le luci di Fiammetta Baldiserri e Oscar Frosio.