CITTà INFERNO

L'oscuro giro di vite del destino

L'oscuro giro di vite del destino

E' uno di quegli spettacoli che fa piacere vedere, Città inferno alla Sala Campana del Teatro della Tosse. Fa piacere per la generosità nello sviluppo dei temi e nell'approfondimento registico, per il coraggio nell'affrontare temi "difficili", per lo slancio genuino nel fronteggiare l'urgenza drammaturgica di determinate storie, l'aderenza alla realtà che esse richiedono per essere raccontate.

E' vero ciò che scrive di recente il Cantiere Campana sulla sua pagina Facebook: la nuova drammaturgia passa da qui, inutile negarlo, con il suo impeto travolgente di passione, curiosità, innovazione, con l'impronta di novità di un lavoro cui necessariamente vanno riconosciuti tanti, autentici punti di forza, ma anche diversi margini di miglioramento.

La giovane Elena Gigliotti, curatrice della regia, ma anche di quelle che lei chiama "partiture fisiche" dello spettacolo, costruisce un insieme curato, bilanciato e riuscito di storia, parola, danza e gesto, in cui i drammi paralleli di un gruppo di donne detenute si snodano in un crescendo parossistico che approfondisce ed enuclea le loro individualità. Si lancia con ardimento in un tema complesso - quello del carcere - e coglie con esattezza gli stilemi che caratterizzano la realtà della detenzione: ciò sia a livello scenico, per merito di una riuscitissima scenografia in cui gli elementi della "cella" e del "muro" ben rispondono all'idea di un ambiente claustrofobico e alienante, sia a livello drammaturgico, dove la caratterizzazione dei vari personaggi efficacemente riproduce elementi quali la perdita della cognizione del tempo, la reiterazione di dinamiche di potere (qui recente dev'essere la lezione de La cucina, per la regia di Valerio Binasco), la mancanza di contatto con il mondo esterno e l'assoluta sfiducia nella giustizia.

In questo "rosario" di storie dolorose e intense (efficacissimi in questo senso gli spazi dedicati al canto e alla danza, veri punti di forza della messa in scena), emerge tuttavia una sorta di urgenza narrativa, difficile da incanalare, che trova nella sovrabbondanza la sua cifra stilistica e non sempre crea una stratificazione coerente tra realtà e finzione. Se, ad esempio, la storia della moglie di mafioso, vittima di "infamità" familiare, richiama un eterno femminino già comune all'immaginazione collettiva, le storie "vere" attinte ai fatti di cronaca nera rischiano di creare un accostamento "pastiche" non facile da portare avanti: è interessante in questo senso (ma non del tutto convincente) l'accostamento tra la storia della saponificatrice di Correggio e la madre assassina di Bologna, a loro volta riavvicinate ai caratteri (fortissimi) dei personaggi di Anna Magnani e Giulietta Masina nel film ispiratore, Nella città , l'inferno.

Sempre a proposito di accostamenti poco intellegibili, la storia di Roberto Succo, resa comunque sulla scena da una straordinaria Elisabetta Mazzullo, pare avere un legame debole con le altre, tutte femminili, risultando il collegamento creato della storia (quella di identità diverse del ricercato) flebile e non del tutto centrato.

Un leit motif forte è invece dato dal tema della maternità, vero denominatore comune di tutte le storie e le identità sul palco, inclusa quella di una "maternità mancata" di Suor Giuseppina, che trova in un'interessante voce maschile l'identità ambigua e così lontana dall'universo delle detenute.

Un'ultima notazione, infine, rispetto allo sviluppo dei conflitti che, a parere di chi scrive, trova una buona linea narrativa, ma non ottimale rispetto al rapporto tra Lina e Cicci (ovvero i personaggi ispirati a quelli di Giulietta Masina e Anna Magnani nel film): qui, nel crescendo drammatico che conduce al dispiegamento della tragica storia di Lina, ci si sarebbe aspettati forse un deflagrare più marcato del conflitto tra le due (esattamente come accadde nel film, anche tra le attrici).

Resta comunque, a parte questo elemento, molto riuscito e godibile il finale, in cui il prevalere dell'elemento surreale crea un'interessante riflessione sul vuoto di molte azioni apparentemente "riabilitative" del detenuto: anche in questo lo spettacolo mostra di avere poche ombre e molte luci, senz'altro quella - meritoria - di aver portato in scena storie senza volto e senza nome, terribilmente lontane, terribilmente vicine all'umanità di ciascuno di noi.

Visto il 10-11-2016
al Della Tosse di Genova (GE)