Danza
DAL BUIO DOPPIO SPETTACOLO FIORI MALATI SUITE CREPUSCOLO DI SERA MISTICA

Doppio appuntamento di danza …

Doppio appuntamento di danza …
Doppio appuntamento di danza nell'ambito della rassegna Grafie del Teatro Furio Camillo. Crepuscolo di sera mistica è la seconda indagine per la messa in scena dello spettacolo Dal Buio che vedrà la luce nel 2009. Di Dal Buio avevamo già avuto modo di parlare lo scorso giugno, in occasione dell'allestimento di Studio senza Luce. La coreografia sorprendeva, tra le altre cose, perché, pur essendo un primo studio di uno spettacolo ancora da fare, aveva già una sua fisionomia riconoscibile, tanto che, a chi scrive, era parso un lavoro completo. L'approccio che Dino Verga ha avuto nel proseguo della sua ricerca è spiazzante. Dino ha decostruito ogni forma coreografica che in quel primo studio era chiusa e conclusa e l'ha reinnestata nella nuova coreografia, apparentemente a uno stadio di sviluppo precedente, più embrionale, meno definito e definitivo. E' ripartito da alcune costanti di Studio Senza Luce quali il misconoscimento dei corpi danzanti, sessuati secondo tradizione (presentando, allora, donne a torso nudo esattamente come gli uomini), ed ha proseguito à rebours, approdando adesso proprio là dove era partito con la coreografia precedente. Non si tratta di una rinuncia, né di un ripensamento, ma di un intelligente e coraggioso avanzamento di una ricerca coreografica il cui risultato finale (lo spettacolo annunciato per il 2009), date le premesse così notevoli, si annuncia come uno dei più importanti appuntamenti di danza del prossimo anno. Se Studio senza Luce si basava sulla dualità che vede opposti buio e luce (ma anche uomo e donna, pieno e vuoto), Crepuscolo di sera mistica sembra sostenuto dal numero tre. Le coreografie non si sviluppano più sulla coppia di danzatori o sul gruppo che riprende modularmente lo stesso passo, c'è sempre uno scarto, un terzo ballerino che anticipa o differisce il movimento, una parte dei ballerini che si discostano dalla coreografia di gruppo. La certezza determinista, la dualità di Studio senza Luce lascia stavolta spazio al dubbio, all'incerto, all'imprevedibile, a quel tertium negato dalla logica aristotelica che qui esplode in tutta la sua dirompenza. Costante e parte integrante della ricerca coreografica è l'impiego di protesi luminose: luci da applicare sulle dita delle mani, globi di luce, altri dispositivi luminosi disposti su avambracci e polpacci diventano gli unici marcatori della presenza di un corpo danzante, altrimenti immerso nel buio. La ballerina dotata di protesi luminose sulle dita di Studio senza Luce è stavolta affiancata anche da un ballerino. Lo stesso strumento è ripreso anche in una coreografia di gruppo da tutti gli uomini (ma anche qui con un elemento dissonante, uno dei ballerini usa un impianto di luci diverse non sulle dita ma su più punti delle braccia). Anche nella coreografia coi globi luminosi c'è sempre un elemento perturbatore, il diverso colore di un globo, della sequenza di accensione... Le coreografie del primo studio rimanevano coreografie a due anche quando erano di gruppo. Il gruppo era un'espansione esponenziale della coppia. Qui invece la coppia è come diluita nel gruppo: non più lo stesso movimento ripreso da tutti ma un gruppo eterogeneo le cui componenti, pur andando all'unisono, a tratti sanno discostarsi dalla forma coreografica comune. Diversa è anche la visione dei ballerini e del loro corpo. Non più forza muscolare nel cui confronto si smussano le differenze uomo-donna, stavolta i ballerini si presentano vestiti secondo i tratti tradizionali, gli uomini in giacca e pantalone, le donne con vestito, stola (o manto) e guanti. Non si tratta di un "imborghesimento" o di una rinuncia a quando precedentemente fatto. La liason è chiara nel primo quadro quando i ragazzi e le ragazze si presentano al pubblico senza vestiti, in slip (e stavolta reggiseno per le ragazze), ma con ai piedi scarponi e scarpe col tacco a spillo e si chiude con un con un passo a due nello stile più classico. Come se Verga ci abbia voluto mostrare il percorso di ricerca al contrario facendo iniziare lo spettacolo là dove in realtà termina (addirittura con un quadro senza musica, al buio, mentre i ballerini schierati in fila si muovono illuminati dalle protesi dei compagni di danza). Ecco allora che l'impressione di una minore organicità e di una maggiore indeterminazione di Crepuscolo di sera mistica non sono riconducibili a uno stadio precedente di ricerca della coreografia, bensì alla sua maggiore complessità, a un vero e proprio cambio di paradigma. Come in un passo di danza a un movimento armonico e stabile ne segue uno instabile, in disequilibrio dinamico e per questo apparentemente meno preciso, corretto e sostenuto dal passo immediatamente successivo, così la ricerca portata avanti da Dino Verga in questo Crepuscolo di sera mistica è un preludio allo spettacolo finale, un guado a metà cammino verso la forma coreografica conclusiva. Un altro tassello in un percorso di ricerca che fa della danza contemporanea una delle forme espressive più interessanti e vive che sa rivolgersi, una volta di più, anche al cuore di chi frequenta poco la danza, che rimane piacevolmente stupito dalla capacità della danza di sedurre ed emozionare. Merito di Dino Verga e dei suoi (delle sue) ballerini(e). *** Presentato per la prima volta in occasione dell'edizione 2007 de Il garofano verde, rassegna di teatro omosessuale, e poi ripreso in mille altre occasioni, un po' in tutta Italia, Fiori Malati di Dino Verga e Luca Russo è uno spettacolo che fonde con raffinata sapienza la coreografia con il teatro (la messa in scena). Un palco spoglio, privo di quinte e di sipario, viene vestito di alcuni pannelli che pendono dal soffitto, sui quali sono proiettate, di volta in volta, immagini e filmati. Una telecamera riprende una parte della scena proiettando, quando serve, l'immagine ripresa su un ulteriore pannello che occupa l'estrema destra del palco, di modo che lo spettatore può scegliere se vedere l'immagine proiettata e ingrandita sul pannello o quella dal vivo, al naturale. Le coreografie sviluppate per quadri reagiscono, per affinità o contrasto, con la scena, cioè con le immagini proiettate di volta in volta sui pannelli, fisse o in movimento, riprese dalla telecamera o scelte dalla rete (per lo più spot televisivi di paesi europei che hanno a che fare col sesso e/o con l'omosessualità). Un felice esempio di multimedialità che moltiplica i punti di vista e mette lo spettatore in un piacevole imbarazzo sulla scelta di cosa seguire, di volta in volta... Lo spettacolo è un omaggio sentito e sfrontatamente ruffiano (visto che è stato prodotto per una rassegna a tematica omosessuale) agli amori omoerotici, celebrati da coreografie che, una volta viste, difficilmente si fanno dimenticare. Nella coreografia di apertura i ballerini (4 uomini e 5 donne) sono intenti in una esplorazione del proprio corpo (gli uomini coi calzoni calati a metà coscia, le donne col vestito scivolato in vita che lascia generosamente i seni scoperti), un'esplorazione pseudo-masturbatoria che si trasforma repentinamente in convulsione e soffocamento. Poi è la volta di uno yuppie che smette giacca e cravatta e, nell'intimità della propria casa, accenna dei liberatori passi di danza, che vengono tarpati dai continui sms stereotipati che riceve da un suo partner (o forse due), che coniugano la parola amore con le desinenze del sesso. Ancora, una donna corteggia la sua ragazza cantandole in maniera aggressiva e incazzata Dio come ti amo di Domenico Modugno, un corteggiamento rituale al quale la ragazza dapprima si sottrae per poi lasciarsi andare, in uno scambio di ruoli tra chi insegue e chi scappa, con sottile ironia, e dove la violenza non è mai letterale ma dissacratoria e gioiosa (alla donna scappa da ridere a tratti). Le immagini fanno da contrappunto alle coreografie (e viceversa) in un accostamento che pertiene più al lato emotivo e inconscio che a quello razionale. Le citazioni visive infatti spaziano dal cinema (da Shortbus a Ludwig passando per La mala education) all'arte alla poesia (Saffo e Baudelaire) il loro accostamento e la loro scelta non assolve una funzione narrativa ma la moltiplicazione tematica di stimoli sensoriali per lo spettatore il quale, tra coreografie, musiche, immagini e colori, è sollecitato da più fronti. Si arriva così al quadro finale, nel quale le coppie, assortite secondo ogni possibilità, ballano e vengono separate da gaie brocche d'acqua versate in testa alla (al) concorrente, in una bonaria gara degli uomini contro le donne, delle donne contro gli uomini, degli etero contro i gay e le lesbiche, dove tutti alla fine subiscono la stessa sorte ...bagnata e dove il sorriso e un senso di sororanza sembra accomunare tutte e tutti. Nello spettacolo si susseguono insomma momenti di ordinaria omosessualità in cui ci si riconosce un po' tutti, chi è omosessuale e chi ha amiche lesbiche o amici gay e conosce le difficoltà di vivere (per tutti) in una società omofoba, ma che nota, anche, le contraddizioni di una (sotto)cultura (?) gay fatta di promiscuità e di continua ricerca di affetto, senza che i diretti interessati ne vedano la contraddizione. Il titolo Fiori malati fa venire in mente i famosi fiori di Baudelaire, ma da del male a malati lo scarto è notevole: la condanna morale con cui l'aggettivo "malati" è stato da sempre riferito agli e alle persone omosessuali getta infatti un'ambiguità sulle intenzioni dello spettacolo che adombra l'intero progetto senza trovare chiarimento. I momenti d'amorevole affetto e di critiche bonarie al mondo gay e lesbico, sostenute da immagini e coreografie, sono infatti affiancati da situazioni di natura completamente diversa. Subito dopo il quadro di apertura una donna racconta, ripresa e "ingrandita" dalla telecamera, di essere stata stuprata da bambina, a nove anni, da un amico di famiglia al quale veniva affidata in piena buonafede. Più avanti vengono proiettati brani del famoso e controverso documentario della BBC sulla pedofilia nella Chiesa, alla quale segue la confessione (anch'essa ripresa dalla telecamera) di un uomo stuprato da piccolo, fino al quadro che vede un femminiello napoletano (magnificamente interpretato da Luca Russo) impossessarsi della scena (in un momento di puro teatro) e danzare sulle note di Bambenella di Raffaele Viviani. Ed è qui che lo spettatore attento non può che restare interdetto. Ogni singolo quadro è preciso ed efficace nello sviluppare il proprio discorso sia esso di denuncia di uno stupro, o la celebrazione dell'amore tenero di due donne, ma nel suo insieme lo spettacolo è manchevole di altre considerazioni sui rapporti uomo donna, su altre violenze (non esiste solo la pedofilia, ma la violenza di mariti, padri e figli ai danni delle donne adulte di famiglia) che subiscono etero e omosessuali, per farsi un discorso esaustivo sull'argomento. Certi accostamenti inquietano perché trovano pericolose assonanze con le posizioni peregrine (perché errate ne loro ragionamento) e reazionarie (perché nascono dalla condanna morale) di Gianfranco Fini, attuale presidente della Camera, che, anni fa, affermò che gli omosessuali non possono fare i maestri perché sarebbero di cattivo esempio per i bambini, e, più di recente, del cardinal Bagnasco che accomunò il riconoscimento del matrimonio omosessuale a quello della pedofilia e dell'incesto. Cosa c'entrano lo stupro, la pedofilia e il travestitismo con le omosessualità? Si tratta di un florilegio di luoghi comuni, messi in bella mostra nella convinzione che nella loro icastica evidenza vengano criticati e sminuiti? Oppure si vuole sottolineare come dal male possa nascere del bene, proprio come dalla creta nasce un fiore? Lo spettacolo tace limitandosi ad accostare femminielli a pedofili... Un nodo irrisolto che lascia troppa discrezionalità agli spettatori nel trarre conclusioni e non abbandona l'alveo dell'omosessualità vista come deformità (i femminielli) e devianza (la pedofilia). La poesia e l'afflato di uno spettacolo di danza che emoziona, affascina e seduce, rischiano di essere spazzati via da una serie di incauti accostamenti che avrebbero richiesto forse uno sviluppo drammaturgico meno rapsodico e sicuramente una più solida base politica. Soprattutto nell'Italia di oggi, omofoba, razzista e di destra. Roma, Teatro Furio Camillo, dal 19 al 30 novembre. (foto di scena Marco Mancini)
Visto il
al Furio Camillo di Roma (RM)