Prosa
HEDDA GABLER

Un perfetto <i>ibsenicidio</i>

Un perfetto <i>ibsenicidio</i>

Il primo disastroso errore della Hedda Gabler portata in scena dal Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, assieme alla compagnia ENFI Teatro, è la visione maschilisticamente miope che Calenda ha di Hedda Gabler che lo porta a fraintendere la sofferenza di Hedda - che non può esistere pienamente nella società in cui vive - come noia, un maschilismo talmente imbarazzante che gli fa dire che Hedda Gabler rimane un enigma fino alla fine: non conosceremo mai il motivo o la complessità dei motivi per i quali si uccide.

In questo enigma inesistente, i motivi del suicidio di Hedda sono dolorosamente fin troppo chiari, si consuma il pregiudizio maschilista e il fraintendimento totale di Calenda sul personaggio e sul dramma di Ibesn.

Quello che per Calenda rappresenta il problema di un personaggio in Ibsen costituisce una questione squisitamente sociale come spiega Ibsen stesso in una lettera al conte Prozor, suo traduttore francese:

Il questo dramma non ho inteso affatto discutere dei cosiddetti problemi. Mio principale obbiettivo è stato descrivere esseri umani sulla base di certe condizioni e idee sociali di oggi1.

Tutt'altro che incapace di aderire a una condizione astorica e universale del femminile, Hedda Gabler è una donna consapevole dello spazio ristretto che la società all'epoca (e purtroppo, per molti versi, ancora oggi) le concede per esprimersi ed esistere al di là dei ruoli di moglie e di madre. 

Questo travisamento maschilista di Hedda Gabler non è il primo e non è nemmeno il peggiore (nel programma di sala sono riportati brani del saggio fantasioso di Roberto Alonge che fa del rifiuto della maternità di Hedda non lo strumento di una legittima autodeterminazione femminile  ma la più grande delle colpe cui una femmina può cadere, per tacere della lettura freudiana delle pistole paterne di Hedda in chiave incestuosa...).

Non a caso Calenda prende per ostinazione il fatto che Hedda si riferisca a sé con il suo vero nome, quello da nubile, trovandovi una conferma del suo legame incestuoso col padre, senza mai pensare al vissuto
psicologico della donna Hedda che dopo una infanzia vissuta in parità con un padre che l'ha cresciuta con la passione dei cavalli e delle armi (sport squisitamente maschili) da moglie deve cambiare il nome, travisando il motivo per cui,  complice l'Alonge, Ibsen nel titolo del dramma si riferisce a Hedda col cognome da nubile e non con quello da sposata.

Quello che però rende imperdonabile questa messinscena è lo scempio che Calenda fa del testo drammatico che dirige come fosse un'opera buffa.

L'ironia sottile e misuratissima di Ibsen che sottolinea con un elegante e delicato sottotesto lo scollamento tra l'imperativo morale codificato nella morale borghese e il comportamento effettivo dei personaggi maschili che circondano Hedda (che possono permettersi deroghe là dove alle donne non è concesso il minimo spazio di manovra  e che hanno in loro tutti qualcosa di piccolo e non solo, come pretende Calenda, agli occhi di Hedda, ma anche a quelli di Ibsen), è sfigurata da Calenda nella ricerca di un comico ovvio e imbarazzante col quale calca la mano trovando nei dialoghi inesistenti battute là dove ci sono dolorosi confronti.

Fra i tantissimi esempi possibili la delusione di Hedda nell'apprendere che Ejlert si è sparato al petto e non alla tempia, scelta per la quale Hedda si contenta (diventando inconsolabile quando apprenderà che in realtà l'uomo si è sparato al basso ventre) è messa in scena da Calenda come i segni buffi, quasi grotteschi,  di una una mania di grandezza ridicola  di Hedda (tanto che il pubblico in sala ne ride) mentre in Ibsen sono l'indice esteriore di una grandezza di spirito che la società in cui Hedda vive le soffoca in petto e che la donna cerca disperatamente senza mai trovarla negli altri. Non una donna strega che pretende dagli altri la grandezza che non trova in sé, ma al contrario una donna cui la società non le permette di vivere grandezza alcuna se non per procura tramite quella degli uomini.

Nulla si salva nell'allestimento.  Non la scenografia che sembra una parodia del teatro naturalista (con tanto di fiamme vive quando Hedda brucia il manoscritto di Ejlert nella stufa a legna) senza servire il dramma che in quegli ambienti si sta svolgendo; non la regia che fa apparire datato e noioso quello che viene giustamente ritenuto il capolavoro di Ibsen, complice una recitazione improponibile da quella di Jacopo Venturiero, che interpreta tutto il testo con la stessa identica cifra espressiva, a quella di Luciano Roman, talmente compiaciuto nell'interpretare un Brack laido e volgare, da cancellare totalmente il complesso spessore del suo personaggio.

Del tutto inespressiva e priva di emozioni la Thea Elvestd di Federica Rossellini la cui apaticità rende davvero incomprensibile come possa aver fatto da musa ispiratrice a Ejlert, interpretazione, anche questa,  tutta di testa, priva di veri sentimenti, Massimo Nicolini si limita a strillare illudendosi così di essere percorso da grandi sentimenti dando prova solo di grandi polmoni.

Tutti e tutte ingabbiati in una recitazione impostata e accademica che stride ancora di più se confrontata con quella intelligente, piena di grazia  e vera di Manuela Mandracchia che è Hedda sempre, non solo quando recita il testo, ma anche quando cammina, quando si siede e quando è assorta in un pensiero.

Anche lei però nel quarto atto perde completamente il controllo del personaggio, piegandosi alla farsa cui, il dramma avvicinandosi alla conclusione, Calenda preme sciaguratamente il pedale compiendo un perfetto ibsenicidio.
 

 

1 Henrik Ibsen citato da Giovanni Antonucci in I capolavori  Newton Compton Roma 2008 (1973), p. 378
 

Visto il 17-12-2013