Nato come Saggio di Diploma del III anno del Corso di Recitazione dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica “Silvio d'Amico” I giorni del buio è prima di tutto uno spettacolo vero, autonomo, con una sua ragione d'essere oltre quella di dare occasione ai 19 tra diplomati e diplomate dell'Accademia di dare mostra della loro bravura.
Il genio drammaturgico di Gabriele Lavia è entrato in sinergia con quello coreutico di Enzo Cosimi e assieme hanno composto una partitura visivo-recitativa degna di nota, dal forte impatto visivo ed emotivo aggiungendo al lavoro teatrale della messinscena e alla prova di recitazione degli ormai ex allievi e allieve una ricerca sul territorio intervistando alcuni barboni e barbone della capitale dando così allo spettacolo un valore aggiunto: la restituzione alla cittadinanza di uno sguardo scenico su una realtà quotidiana che tutti e tutte tendenzialmente ignoriamo.
19 monologhi restituiscono il racconto di altrettante vite di uomini e donne tra i quaranta e i settanta anni (ma un paio di barbone sono molti più giovani) che i e le studenti hanno intervistato nella Capitale nell'arco di diversi mesi.
Ogni allievo e allieva, già in parte, introduce il proprio personaggio attraverso un dettaglio del carattere, della postura, della parlata, poi, fuori parte, dichiara luogo e data dell'intervista, per rientrare subito in carattere ed eseguire il suo monologo.
Intanto gli altri e le altre sostengono il monologo con un'azione scenica continua e cangiante guidata e coreografata da Cosimi.
Lo spettacolo si apre con l'ingresso in scena di una torre costruita da diversi carrelli della spesa montati uno sull'altro, dopo che una pletora di fanali automobilistici delle luci a mezza altezza poste sul fondale di quinta e puntate in platea hanno abbagliato il pubblico e un rumore di traffico e clacson lo ha assordato.
Sulla torre sono abbarbicati e abbarbicate alcuni degli e elle studenti mentre altri e altre sospingono la costruzione al centro del palco. I carrelli si innalzano come la torre costruttivista di Tatlin portando
il suo loro di naufraghi e naufraghe della nostra contemporaneità, novella zattera di Medusa di Géricault.
La zattera torrita sarà percorsa, scalata, sposata, fatta entrare e uscire dal palco e persino innalzata agganciata a dei cavi e fatta sparite alla vista per essere riaccolta, nel finale, quando, calata dall'alto, tutti e tutte troveranno posto sotto di essa, sfiorandone la base con dei rami frondosi inneggiando all'avvenire di dignità di una condizione umana troppo spesso umiliata e svilita.
Marce incrociate, spostamenti di gruppo, altri carrelli della spesa che entrano ed escono dalla scena, nei quali torvano posto anche attori e attrici, una delle barbone fatte levitare dal sostegno di molte braccia, Cosimi chiede molto e ottiene molto dagli e dalle studenti che vanno in scena nudi e nude uno slip dalle diverse fogge per i ragazzi, slip e reggiseno per le ragazze, mentre una polvere farinosa li ricopre.
Dei copri nudi di volta in volta vestiti da un trench, un abito ottocentesco, un cappello, mentre interpretato i sigoli e le singole homeless mentre nei movimenti di gruppo solo a tratti ricorrono all'ausilio di costumi come la sequenza delle donne vamp e degli uomini vamp, unico momento di caduta di stile, tradendo una asimmetria di genere tra le ragazze esaltate nella loro bellezza femminile, rese tutte uguali dalla stessa parrucca di lunghi capelli neri, a uso e consumo di certo immaginario erotico maschile e maschilista, mentre i ragazzi non sono trattati allo stesso modo le parrucche che indossano coprendo i loro visi e rendendoli corpi anonimi non eroticamente rilevanti.
Una messinscena contronaturalistica che dà modo agli allievi e alle allieve di restituire con la loro giovane età non già l'anagraficità dei barboni e delle barbone che portano sulla scena, in uno sfoggio di bravura interpretativa, ma, come spiega Lavia nelle note di regia il loro “respiro poetico” (...) l’anima dei nostri nuovi amici senza nessuna “mimesi”, anzi segnandone la distanza. Il rispetto.
Nessuno sfruttamento spettacolare della marginalità quindi ma, al contrario, il mettere di fronte al pubblico romano, quello idealmente borghese che trova posto in un teatro del 1700, che, come ricordava De Sica in Miracolo a Milano "anche i barboni hanno cinque dita".