Una lucida emozione artiglia lo spettatore e lo conduce nei labirinti del monastero dove si fronteggiano dogmi e razionalità, lotte senza esclusioni di colpi tra Impero e Papato, pulsioni penitenziali di sapore quasi masochistico e sete di potere. Il Nome della Rosa, Il romanzo di Umberto Eco, già splendidamente trasformato in film da Annaud, vince alla grande anche la sua sfida con il linguaggio teatrale.
Era un azzardo su due fronti. Dopo aver dubitato, infatti, che quella narrazione fluviale, piena di sottotesti, potesse reggere sul grande schermo, molti spettatori, di fronte a questa produzione dello stabile di Genova, di Torino e del Veneto, pensavano che soltanto al cinema fosse consentito il miracolo di una trasposizione avvincente e convincente.
Dispute teologiche da thrilling
Ogni dubbio è svanito alla prima alla Corte: chapeau alla riduzione drammaturgica di Stefano Massini, come sempre capace di un linguaggio prezioso e al tempo fluido e colloquiale, e alla regia di Leo Muscato che regala al giallo la forza di un’impalcatura teoretica mentre imprime alla dispute teologiche un ritmo da thrilling. Il merito va anche a una straordinaria equipe di attori che fanno rivivere la storia attraverso i ricordi di Adso, allievo di Guglielmo da Baskerville, come in un flash back che riesce a chiarire e a oliare tutto gli snodi senza sospetti di pedanteria.
Ciascuno degli interpreti da Luca Lazzareschi (Guglielmo) a Giovanni Anzaldo (il giovane Adso, da Eugenio Allegri (Ubertino da Casale e l’inquisitore) ad Alfonso Postiglione ( Salvatore) a Franco Ravera (Remigio) danno carne e sangue ai fantasmi del passato, in un affresco nel quale anche tutti gli altri non sbagliano una sfumatura.