A Firenze da qualche anno intelligentemente fanno “prove di repertorio”, un modo di allestire spettacoli comune a ti maggiori teatri europei che consente di allestire in tempi brevi opere dai depositi dei teatri e, complici i titoli popolari, di riempire le sale. In questa conclusione di stagione si alternano al Comunale Bohème e Barbiere di Siviglia. Tutte le recite esaurite: si conferma che anche in Italia c’è richiesta per produzioni di repertorio facilmente accessibili e che l’opera è ancora una forma artistica popolare attraente per un pubblico generalista e giovane da coltivare e avvicinare all’opera con i classici.
Tradizionale la regia di Mario Pontiggia che coglie l’aspetto brioso e garbato della vita dei protagonisti con uno spettacolo di buon livello come l’elegante e curata scenografia di Francesco Zito, espressione di un mestiere dalla forte importa artigianale all’insegna del buon gusto. La soffitta è un grande ambiente con travature metalliche a vista che ricordano un loft ricavato in un’architettura post-industriale con una parete vetrata sullo sfondo formata da tessere di vetri opalescenti che diffondono la luce in modo naturale. La soffitta ritorna nel quarto atto talmente fiorita da sembrare una serra in ferro e vetro con la porta finestra aperta con vista sui tetti di Parigi, forse troppo ridente e primaverile per essere “una tana squallida”, ma il colpo d’occhio è piacevole e il senso di grande apertura appaga (ma risulta fuori luogo l'incontro di sumo tra i protagonisti).
Il Cafè Momus è un gazebo dai vetri liberty colorati con camerieri che svolazzano mentre venditori ambulanti, maschere e bambini affollano il variopinto e riconoscibile quartiere latino. Il quadro è generico e potrebbe essere stato preso in prestito da una qualsiasi altra Bohème, ma è funzionale e ricrea l’atmosfera festosa. L’ambientazione più riuscita è la Barrière d’Enfer, avvolta in una fitta nebbia che rende le luci fioche e avvolge in un’atmosfera ovattata e poetica lo squallore di una Parigi di periferia vista sotto il ponte della ferrovia.
Nel cast di giovani cantanti le donne hanno convinto maggiormente. Yolanda Auyanet è una Mimì delicata e dalla bella voce, corretta e dotata di personalità; la voce non ha difficoltà a passare l’orchestra e ha quella luminosità e naturale espansione melodica necessarie per rendere tutta la spontanea comunicativa di Mimì, che il regista vuole intraprendente: lascia volontariamente cadere a terra la chiave della camera e spegne ella stessa la sua candela con un vigoroso soffio. Rocio Ignacio è una Musetta disinvolta e graziosa, brillante ed effervescente, dalla vocalità importante. Lorenzo Decaro non ha grande estensione vocale e soprattutto ha troppe disomogeneità con qualche caduta di intonazione, una voce senza sfumature che non rende la delicatezza e la sentimentalità di Rodolfo. Devid Cecconi è un Marcello dal timbro cupo, poco in evidenza. Solenne ma un po' anonima la “vecchia zimarra” di Colline nell’interpretazione di Felipe Bou, penalizzato anche da una parrucca eccessiva. Unico tra gli uomini che abbia convinto è Simone Del Savio, che a Schaunard dona voce scura e verve interpretativa, anche nel suggerire a Musetta il dolore al piede da Mumus e nel tenere il segno con l'indice nel libro che sta leggendo in terrazza per lasciare soli Mimì e Rodolfo. Insieme a loro Andrea Cortese è Benoit e Alcindoro, Leonardo Melani è Parpignol, Vito Luciano Roberti un sergente dei doganieri e Lisandro Guinis un doganiere.
Carlo Montanaro offre una direzione dai tempi lenti con improvvisi guizzi senza dare buon rilievo ai dettagli della strumentazione. Il pubblico applaude molto, anche sopra la musica: nel finale non basta un cenno imperioso del direttore a stoppare il battimani che copre le ultime note.
Oltre all’ottimo coro preparato Piero Monti, in scena i Ragazzi Cantori di Firenze diretti da Marisol Carballo.
Teatro gremito, anche di giovani; pubblico molto generoso con gli applausi.