Macerata, teatro Lauro Rossi, “Moby Dick” da Herman Melville
CHIAMATEMI ISMAELE
Al centro di Moby Dick c'è il cercare, il senso di incompiutezza dell'uomo, la necessità di viaggiare e di leggere, esplorare, l'implacabile sete di conoscenza che poi diventa l'ossessione di arrivare a un approdo calmo e sicuro.
Rispetto alle pagine fluviali del romanzo di Melville, l'elaborazione drammaturgica di Federico Bellini è un diario di bordo che cerca di raccontare la storia di un equipaggio che non vuole ammainare le sue vele. Bellini e il regista Antonio Latella pongono al centro l'incompiutezza umana, guardata con una sorta di cupa fatalità. Il meccanismo è ben costruito: Ismaele in solitaria introduce la storia e l'azione; sullo sfondo una sorta di otturatore di macchina fotografica che, aprendosi, rivela gli altri personaggi. Assiemi pieni di forza introducono l'ingresso di Achab nel sollevarsi della parete di fondo su uno studiolo bianco abbacinante.
Ismaele apre e chiude, si prende lo stesso ruolo che ha nella tragedia greca, il testimone che racconta una storia che altro non è se non un viaggio attraverso il mare della conoscenza con la consapevolezza della inevitabilità di uno sradicamento, partire per non tornare. Sono state inserite vere e proprie interpolazioni con passi della Divina Commedia e di Shakespeare (“essere non essere” diventa il riferimento al destino del protagonista, così fortemente voluto e al tempo stesso così fatalmente inevitabile). I libri sono l'elemento simbolo in una nave che non ha corde né vele ma solo una struttura che richiama la stiva, la coperta e gli alberi. La cabina di Achab ha le pareti interamente foderate da librerie zeppe di libri e libri sono in proscenio come “isole” su cui appoggiare i piedi e saltellare, libri che galleggiano sull'acqua o nell'aria, libri spostati, maneggiati, strappati. Dominano il bianco e il nero nell'affascinante scenografia ideata da Antonio Latella ed illuminata sapientemente da Giorgio Cervesi Ripa, giocata su una griglia inclinata che si ripete come muro di fondoscena, al tempo stesso nave e vele. I costumi molto belli di Gianluca Falaschi sono solo imbastiti, hanno i segni dei gessi e delle impunture, non cuciti, non finiti. Il mare è presente come sciabordio nei suoni di Franco Visioli che, nel riprodurre i versi dei cetacei, fanno tremare i legni di palchi e riempiono di inquietudine la platea.
La cifra di Latella emerge in alcuni spunti, il pranzo coi piatti usato come frisbee, la caccia alla balena, l'effetto dei riflessi del sole sull'acqua ottenuto con una tavola foderata di carta argentata, la mancanza di equilibrio nel muoversi sulla nave (e nella vita). Manca però un elemento essenziale, quel senso di mistero enigmatico ed affascinante che attrae l'uomo, divenendo unica ragione di vita, un mistero insondabile ed inesprimibile qui assente. Poco convincenti i momenti in cui la recitazione è sostituita dal linguaggio dei gesti. Il mare, omerico e biblico insieme, luogo di immense profondità che sfuggono alla comprensione e all'intelligenza umana, è in questo caso più motivo di inquietudine che luogo in cui indagare i significati simbolici della narrazione, infiniti nel romanzo, scaturenti ad ogni passo dalla ricchezza e dalla densità del testo, probabilmente mossi dalla visione tragica della vita che Melville aveva, dal suo senso della disperante ambiguità del bene e del male tra coi l'uomo oscilla senza possibilità di una scelta definitiva.
Giorgio Albertazzi è un Achab fascinoso, stanco e disilluso: il suo persistere nella caccia alla balena emerge più dai marinai che da lui stesso, tanto che alla fine è un burattino nelle mani di Ismaele, interpretato da Rosario Tedesco in questa ripresa di turnè anziché da Marco Foschi (il che comporta la “sparizione del Flask di Tedesco) e ritratto come una sorta di “spettatore” in molte delle azioni. Azzeccati tutti i comprimari, i “soliti” Emiliano Brioschi, Marco Cacciola, Fabio Pasquini, Annibale Pavone ed Enrico Roccaforte; con loro Giuseppe Papa e Timothy Martin cantano e suonano violini e clavicembalo.
Teatro gremito, pubblico attento ma poco coinvolto, applausi di routine.
Visto a Macerata, teatro Lauro Rossi, il 03 dicembre 2008
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
Piccolo Teatro - Teatro Strehler
di Milano
(MI)