No, non è la gelosia il motore principale dell'Otello che inaugura la Stagione lirica 2024-25 del Teatro La Fenice. A muover le pedine è il Male assoluto, presente qui nelle sue componenti dell'invidia, dell'odio, della perfidia, a comporre la torva malvagità di Jago. Figura cardine dell'opera, in Boito e Verdi, ancor più che in Shakespeare. E qui ne incontriamo uno d'eccellenza.
Uno Jago da incorniciare
E' una figura che assume un'adeguata dimensione solo se consegnata ad un interprete di vaglia, e Luca Micheletti certo lo è. Da formidabile attore centra pienamente il malvagio carattere di Jago, compreso quel tocco di perfidia melliflua che lo segna, con fortissimo temperamento ed una gestualità perfetta.
A lui, la regia non deve insegnare nulla. Seconda cosa, ha una voce baritonale tagliente e morbida insieme - uno staffile guidato da un guanto di velluto – sorretta da un timbro elegante, un fraseggiare suadente, una corsa agile sul rigo musicale.
Un debutto che incuriosiva
Grande l'attesa c'era per il debutto quale Otello di Francesco Meli, il cui retroterra interpretativo in teoria non parrebbe portarlo ad un siffatto impegno. Da serio professionista, la parte l'ha studiata a fondo e – salvo qualche sbandamento, salvo qualche sforzo – porta a casa un risultato per certi lati interessante. Il suo Moro presenta centro saldo e compatto, volume espansivo, timbro tenorile solare e luminoso, schietta propensione ad agili, e squillanti acuti. Per il Moro, nondimeno, preferiamo un assetto vocale diverso: un riferimento ideale, il Domingo che fondeva la plasticità scultorea di un Del Monaco con la nobiltà di fraseggio di un Vickers o di un Vinay. Oggi, un Gregory Kunde.
Del soprano coreano Karah Son, c'è poco da dire: la sua Desdemona poco possiede del profilo immaginato da Verdi. A parte una certa tendenza al vibrato, la voce non ha forza nei bassi, il centro appare esile, la dizione poco scandita; quanto a temperamento, siamo prossimi allo zero. Nelle parti di fianco, Francesco Marsiglia offre un Cassio un po' fiacco ed approsimativo; William Corrò è un solido Montano; Enrico Casari un Roderigo ben piantato; Anna Malavasi propone un'ottima Emilia; Antonio Casagrande è l'Araldo. Impeccabile il Coro feniceo, suo maestro Alfonso Caiani. Impeccabili i Piccoli Cantori Veneziani, preparati da Diana D'Alessio.
Quattro Otello per Myung-Whun Chung
E' la quarta volta in dieci anni che Myung-Whun Chung dirige Otello a Venezia. L'Orchestra della Fenice ha molte potenzialità, e il maestro coreano le sfrutta tutte. La sua lettura appare ora molto più tesa, più drammatica, più concitata, va alla ricerca di coloriti contrasti e di sonorità scabre e taglienti. In parole povere, è vorticosa e travolgente, un vulcano di sonorità cangianti. Di contrappeso, minor liricità, minori sfumature, minor raffinatezza armonica; mentre affiora l'assenza di un profondo programma interpretativo che coinvolga i cantanti. Ci era piaciuto di più in passato.
Mosaici, dorature, pietre preziose
L’allestimento è pensato dal regista Fabio Ceresa, che ha chiesto a Massimo Cecchetto un'apparato frontale fisso che ricorda la preziosa Pala d'Oro di San Marco –curiosamente l'effetto è da Cofanetto Sperlari - con tre grandi aperture e dietro un turbinio di mosaici evocati dalle videografica di Sergio Metalli. Molto aureo bizantinismo, mischiato a moderne eleganze, troviamo anche nei costumi di Claudia Pernigotti. Però in tutto l'insieme vige un cuorioso horror vacui che finisce per saturare l'occhio.
Quanto alle regia, nel suo andamento coerente procede rispettosa del testo, con misurata drammaticità. Per Otello, niente black face. E molto glamour in scena, fors'anche troppo. Qualche spunto funziona bene – l'aggrovigliarsi delle figure demoniache che accompagnano ora Otello, ora Jago il quale alla fine non fugge, ma assiste trionfante alla catarsi finale – e qualcuno decisamente no. Il mimo dorato che rappresenta il Leone di San Marco, è un inserto forzato; e pleonastiche appaiono le ieratiche sagome angeliche, messe talvolta a fungere da servi di scena.