Danza
SALVES

Salves, pièce visio…


	Salves, pièce visio…

Salves, pièce visionaria e sorprendente, presentata in prima italiana, espressione di una coreografa che racconta nei propri lavori un profondo impegno etico.
In Salves ci sono valzer, ma non possiamo dire che ci sono molti passi di danza. Sul set, poco o nulla. Tavole impilate su entrambi i lati, aperture tra le pareti nere della scena. C’è piena luce sul palco e in sala. Un uomo entra, vestito con pantaloni scuri e una camicia bianca, anonimo. Egli stende un filo invisibile, lo srotola, ne misura la resistenza. Una donna lo raggiunge e presto saranno sette a prendere il filo che intreccia le nostre vite, a perderlo e ritrovarlo, romperlo e ricongiungerlo. Sulla scena le figure, una ad una, si raccolgono mentre la platea non è ancora nell’oscurità. Poi cala l’oscurità, e si stabilisce per quasi una intera ora, non rimane acceso che l’interruttore del registratore d’epoca. C’è il tempo di valzer ma non ci sono i valzer viennesi, solo suoni su nastro registrato e gesti: il suono delle bombe o delle scatole di un supermercato, spostate, scaricate, e gesti ripetuti, immagini che vanno e vengono, difficili da riconoscere. E ancora un tavolo, un poster, un vestito: simboli, piuttosto che ricordi, tracce anacronistiche, resti della storia che non impone più nulla al presente ed è usata come pubblicità.
Alexandre Béneteaud più che con la luce gioca con l’oscurità. Le fonti di luce sono diverse: torce elettriche, una pellicola vuota proiettata sul muro, e l’intensità varia. L’atmosfera è inquietante, affascinante nella sua capacità far trasparire il mistero di azioni segrete. Il movimento non conosce pause, si diffonde da un corpo all’altro, da un punto all’altro. In ogni momento i danzatori corrono, attraversando il palco con le braccia cariche. Immagini in movimento si ripetono ad intermittenza, ombre scivolano, azioni si compiono.
Con Salves Maguy Marin tira i fili invisibili della storia e mette in scena l’emergenza di raccoglierne i pezzi, nel tentativo di costruire qualcosa, ancora e ancora. L’arte è attraversata dall’agitazione che scuote il mondo, e Maguy Marin celebra l’arte della libertà. Guernica, Les Fusillés du 3 mai 1808, La Liberté éclairant le monde, i poster d'Elvis Presley, una fotografia di Vladimir Putin e Georges Bush occupano contemporaneamente la scena. Le opere segnano il tempo, la libertà sembra sempre essere minacciata, ridotta al silenzio, ma rinascere in tutto il mondo, surrettiziamente, valorosamente. Gli oggetti vengono spostati continuamente. Una donna scrive, al posto di quadri caduti, “Quand on est dans la merde jusqu'au cou, il ne reste plus qu'à chanter”, e immersi nel montaggio sonoro di Denis Mariotte - passi, colpi di arma da fuoco, motori, cadute, discorsi radiofonici - tutti sono in silenzio e agiscono, senza fine. In questo palco immerso nelle tenebre, Maguy Marin è riuscita a catturare un movimento, ad attirare l’attenzione su una moltitudine di cose che sfuggono allo sguardo. Maguy Marin difende qui una danza necessaria, corpi fragili e indistruttibili, i corpi presenti nel mondo. Nei combattimenti o nelle banali azioni, il movimento è l’unica risposta plausibile, ma non è né sacro, né prezioso. La danza può essere dimenticata, l’essenziale è altrove: rifiutare di rinunciare, condividere la bellezza e la forza dell’azione.

Visto il 29-10-2011
al Ariosto di Reggio Emilia (RE)