Musical e varietà
A SANTA LUCIA

Viviani-Glejeses verso un teatro popolare

Viviani-Glejeses verso un teatro popolare

Ha debuttato al Teatro Bellini il nuovo spettacolo di Geppy Gleijeses A santa Lucia, tratto dalla commedia in due atti con musiche di Raffaele Viviani Santa Lucia nova. Siamo a settanta anni dall'ultima messa in scena di quest'opera minore del grande autore napoletano, che firmò personalmente la sua regia nel 1943.

L'azione si svolge a Borgo Marinari e più precisamente al Ristorante Starita, nel 1919. Verso l'una di notte, Starita viene popolata da nobili spiantati, viveur, cocotte, cocainomani, cafoni arricchiti, poeti squattrinati, che lì si scontrano con il mondo dei luciani, gli abitanti di Santa Lucia, "povera gente", "fermi come lo scoglio, il mare li corrode, li distrugge, ma non li smuove", "'nzuvarate 'e mare". Sono l'ostricaro, la venditrice di spighe, l'acquaiola, il barcaiolo, figure leggendarie della Napoli che fu. Il filo conduttore della storia è l'incontro fisico e sensuale di Fanny, mondana bellissima, e Jennaro, il barcaiolo, lo scugnizzo.

La loro avventura, l'avventura di un ragazzo del popolo con una donna di alto borgo, pare essere solo "un capriccio come gli altri". Così almeno si giustifica la donna con la sua domestica quando quest'ultima la rimprovera di mischiarsi a certa gente, paradossale rimprovero di chi viene da quello stesso basso sociale, come lo schiavo schiavista che ormai ha perso ogni istinto alla riscossa. Ma è davvero solo un capriccio? La sensualità della loro passeggiata in barca, il loro appuntamento notturno sul balcone di lei, il trasporto con il quale la donna accoglie il ragazzo fanno pensare anche a una passione autentica. Una passione che potrebbe sbocciare ma che, sul nascere, naufraga contro il muro della distanza sociale dell'alto contro il basso, del ricco contro il povero, delle aspettative di una donna che vuole sentire parlare d'amore contro le imprecazioni crude e tenere di chi non sa articolare una parola italiana, men che meno poetica. "Simm e n'ata razza!", è ciò che ripete lo scugnizzo mentre s'inebria, immobilizzato, dei nuovi profumi prorompenti dal corpo di lei, e mentre gli altri luciani, gelosi, lo vengono a reclamare. E' una Napoli immediatamente post-prima guerra mondiale, quella che ci si presenta allo sguardo quando entriamo in teatro. Il colpo d'occhio è molto bello: la sagoma di Starita, le luci soffuse, l'ambiente caldo, i tavolini e le sedie, i personaggi dei luciani disposti sui lati della scena, i costumi suggestivi che indossano, ci riportano in modo trasparente e fedele a quel tempo, a quel contesto. Ma è anche la Napoli del Cafè-Chantant, del primo Varietà, dell'Avanspettacolo, che si fanno sentire tutti nel testo di Viviani e nella regia di Gleijeses.

Uno spettacolo in cui Gleijeses è regista, cantante e attore, che si avvale della presenza brillante di Lello Arena, della figura affascinante di Marianella Bargilli, del contributo estroso dei più giovani attori Angela De Matteo e Daniele Russo (di casa qui al Bellini), degli altri undici tra attori e cantanti, capaci di dar corpo e voce, recitata e cantata, alle suggestioni audiovisive di un

Viviani da riscoprire, esalatate tra l'altro dai costumi di Adele Bargilli e soprattutto dalle luci di Luigi Ascione e dalle scene di Pierpaolo Bisleri, di grande impatto visivo.

E' ormai un po' di tempo che nell'immaginario collettivo, partenopeo almeno, Viviani sia il Brecht nostrano. Ed è un bene. Anche in questo testo, senza dubbio minore, senza dubbio semplicistico per certi versi, le contraddizioni sociali esplodono all'interno e attraverso le dinamiche di relazione tra i personaggi, lacerano i rapporti tra le classi fino a dichiararli impossibili.

In questo nostro tempo, Viviani viene sempre più riscoperto, restituito al pubblico napoletano. Grazie al lavoro di Gleijeses, per questo. Anche altri spettacoli e iniziative di formazione per attori stanno, in queste settimane, abitando il nostro territorio. Ed è una giustizia che viene resa non solo al grande teatrante-drammaturgo, ma anche alla nostra tradizione nel suo insieme, che riscopriamo abitata non solo da Eduardo e Scarpetta, ma anche da un autore squisitamente ed autenticamente popolare.

Il rischio, che a tratti viene fuori anche nella regia di Gleijeses, è che questa riscoperta diventi limitativa. Il popolare è uno stile difficile, anche e soprattutto perchè praticato poco da noi. Nel popolare che lo stesso Brecht proponeva, e che è stato di Petito e di pochi altri da noi (Eduardo, nella sua grandezza e nella sua profonda napoletanità, è conunque un autore per molti versi "borghese"), c'è tutto un ritmo, tutta una plasticità, tutta una figuratività dei corpi e delle voci che non possono limitarsi allo stile recitativo, anche ben praticato, della nostra tradizione meglio conosciuta, dalla commedia di carattere alla sceneggiata. C'è qualcosa di diverso in Viviani, che una ricerca più approfondita e più generosa possono, probabilmente, restituirgli. Qualcosa che Gleijeses e i suoi attori possono, senza dubbio, cogliere in profondità, se non si adagiano sul già noto del nostro teatro, se il loro gesto di restituzione saprà correggere qualche piccolo clichè, incarnandolo nella totale generosità del dono, recitativo e registico.

Visto il
al Fonderie Limone di Moncalieri (TO)