Eros e thanatos sulla scena: l'antinomia fatale (l'indissolubile nodo di amore e morte) segna le carte nel complicato gioco delle passioni di “Tutto su mia madre”, pièce di Samuel Adamson (nella traduzione di Giovanni Lombardo Radice) tratta dal bellissimo, intenso film di Pedro Almodóvar, in cartellone al Teatro Massimo di Cagliari (e prima al Verdi di Sassari) per la Stagione di Prosa del CeDAC. Racconto surreale e affascinante che mescola arte e vita in un sublime e raffinato meccanismo metateatrale, in cui le parole di Tennessee Williams e Federico Garcia Lorca riflettono e svelano stati d'animo e segrete ferite dell'animo dei protagonisti, trasformando in poesia l'apparente banalità del quotidiano e il gusto amaro, ineffabile e insostenibile del dolore. Una “tragedia shakespeariana” sui temi fondamentali dell'esistenza con i segni e le forme inequivocabili della contemporaneità: ritratto della società odierna tra dive inaccessibili e fragilissime, emarginati, “tossici” e “puttane”, adolescenti inquiete, ragazze madri e trans, infermiere e suore metropolitane. Indagine lucida, amorevole e perfino spietata dell'universo femminile con i suoi riti e misteri, l'antagonismo di “Eva contro Eva” e quella solidarietà spontanea che, malgrado tutto, oltre le differenze e le idiosincrasie offre un fronte comune contro la sofferenza, gli abusi e – somma crudeltà – l'indifferenza. Mater dolorosa – per un capriccio della sorte che lascia esanime sull'asfalto, travolto da un'auto, il suo unico figlio – costretta a confrontarsi con un passato “dimenticato”, Manuela trova (nello spettacolo, coproduzione di Fondazione Teatro Due – Teatro Stabile del Veneto) in Elisabetta Pozzi un'incarnazione di disarmante e disarmata umanità, segnata dalla sventura più grande ma infaticabile portatrice dell'immateriale eredità dei sogni infranti del giovane Esteban (Alberto Onofrietti). Invisibile ma sempre presente (nei pensieri e nelle parole, nelle intenzioni e perfino nell'agire dei personaggi) il ragazzo diventa – come ben sottolinea la regia attenta e “sensibile”, curatissima ma anche lieve e “nascosta”, intima di Leo Muscato - quasi l'artefice e regista della vicenda, in un fondersi e intrecciarsi di piani e registri narrativi, come se gli incontri e i drammi sotto gli occhi dello spettatore fossero parte di un suo immaginario. Sottile fil rouge, tra apparizioni di “fantasmi” reali e simbolici – l'ambigua Lola, seduttrice pericolosa, padre/madre impossibile (sempre Onofrietti) – e lo sbocciare di una nuova vita, con un cuore che continua a palpitare regalando un'imprevista frazione di futuro a uno sconosciuto, a indicare una riflessione sul mistero oltre il confine dell'ultimo respiro, e dunque sul significato più profondo della vita e della morte. Fascino non meno fatale (costato appunto almeno una vita) quello di Huma, interpretata da Alvia Reale (alter ego di Marisa Paredes nel film) tra indiscutibile talento e vezzi da prima attrice, ma vinta a sua volta dalla passione per Nina (Giovanna Mangiù), attrice per caso ma perduta nella spirale della tossicodipendenza. Bellissima e “tanto più autentica quanto più somiglia all'idea di sé stessa” l'icona transgender di Agrado, il cui monologo punteggia, accanto ai frammenti di “Un tram che si chiama desiderio” e ancora il lamento della madre di “Nozze di sangue”, i momenti della vita reale, in un montaggio incrociato quasi cinematografico: e a prestarle volto e voce, in una curiosa e riuscita sovrapposizione fra invenzione e realtà, è Eva Robin's. Tris, anzi poker di donne – e signore della scena – impreziosito dall'ingenua bontà, che ne fa la vittima predestinata di coloro che vorrebbe salvare togliendole/i dalla strada, o forse solo dell'irrimediabile efferatezza del mondo, della giovane suorina Rosa (Silvia Giulia Mendola) a sua volta inconsapevole “carnefice” della propria madre, pittrice incompresa (ma di successo) di “imitazioni” di dipinti celebri (Paola Di Meglio, che si sdoppia anche nel ruolo di una psicologa). Completa il cast – destreggiandosi abilmente fra le variegate personalità di ben cinque personaggi - un istrionico Alberto Fasoli, capace di tratteggiare, in un volutamente smaccato gioco di metamorfosi, la freddezza dei medici e la violenza del cliente di una prostituta, l'ansia professionale e le crisi del direttore di scena Alex e perfino, attore che fa un altro sé stesso, la rude mascolinità dello Stanley del “Tram”. Un esperimento riuscito – già nell'originale versione inglese all'Old Vic Theatre di Londra, e ora in quell italiana fortemente voluta da Elisabetta Pozzi – per la difficile e interessante trasposizione tra decima musa e linguaggio della scena, su uno scenario cangiante e tra i candidi veli che incorniciano la Blanche di Huma, sulla colonna sonora disegnata da Daniele D'Angelo in cui voci e suoni si sposano a suggerire l'incalzante giostra dei giorni, il rumore assordante della vita.
Prosa
TUTTO SU MIA MADRE
Il senso della vita in "Tutto su mia madre"
Visto il
28-03-2012
al
Massimo - Sala Grande
di Cagliari
(CA)