"Tutto su mia madre" di Pedro Almodovar (capolavoro di sceneggiatura, regia, montaggio, ambientazione) fu giustamente premiato con l'Oscar, risarcendo il regista del mancato riconoscimento dieci anni prima con "Donne sull'orlo di una crisi di nervi", giunto secondo dietro l'irripetibile "Pranzo di Babette" tratto da un magistrale racconto di Karen Blixen.
La versione teatrale di Samuel Adamson appare come autonoma, pur mantenendo l'ambientazione nella Spagna del recente passato ed il plot. Elisabetta Pozzi è riuscita a portarla in Italia dall'originale inglese, tradotto in modo calzante da Giovanni Lombardo Radice. Lo spettacolo inevitabilmente si confronta con il film ma, al tempo stesso, se ne discosta in modo significativo, in quanto il testo di Adamson ha un andamento onirico, meno sulfureo e tagliente, più meditato, tratteggiando una storia mentale che si dipana tra flashback, ricordi e pensieri. E se il film era centrato sull'identità e sulle dinamiche dei sentimenti, il testo teatrale, evidenziando maggiormente il meccanismo vero-falso connesso alla recitazione e alla vita, delinea in modo più preciso e convincente quelle stesse dinamiche sentimentali.
Evidente la mano di Leo Muscato per chi ha seguito i suoi precedenti: l'attenzione alla caratterialità dei personaggi, il lungo e meticoloso lavoro con gli attori, i gesti mai gratuiti bensì sempre meditati ed espressione dell'interiorità, il senso di visionarietà onirica alla base dell'allestimento, il presentare ogni essere umano come se fosse in bilico, in fuga da sé stesso, alla ricerca di quel che mai potrà ottenere (in senso quasi cechoviano).
Il regista intreccia con mano felice i tanti fili del testo, gli argomenti che Almodòvar e Adamson impongono all'attenzione dello spettatore. Senza mai scivolare nel dramma o nel melodramma. Muscato propende per un clima rasserenante, per una maggiore intimità tra i personaggi, dovuta non solo alla vicinanza fisica degli spettatori. Il tutto emblematico di una naturalità e spontaneità nei confronti della vita. Le protagoniste sono tutte donne, indubbiamente (gli uomini debbono diventare donne per acquisire una loro individualità). Donne che piangono e ridono, si disperano ma continuano a sognare, a vivere resistendo caparbiamente controvento. Soprattutto comprendono e perdonano sé stesse e gli altri. Percepiscono il risentimento e la sofferenza ma riescono ad impedire loro di incancrenirsi e di trasformarsi in rancore e odio, rendendo impossibile il vivere. Donne che vogliono solo vivere, senza giudizi, senza condanne.
La regia colpisce dal punto di vista iconico, con richiami ai film di Almodòvar (le donne sul divano come nel manifesto di "Donne sull'orlo di una crisi di nervi") e immagini forti e significative, merito anche di scenografia e luci.
Muscato è abile nel tratteggiare la storia con leggerezza e intensità, calcando meno sugli eccessi e la trasgressione. Ma mantenendo il delinearsi di dolori laceranti, di passioni devastanti e destabilizzanti. Gli amori sono eterni nel cuore ma non nella vita. Le gioie vanno e vengono nel tempo di un respiro. I dolori no, durano un tempo che pare infinito. Si fa fatica a vivere controvento. Si fa fatica a ricominciare quando ti senti bruciare dentro. E continui a bruciare come se fossi abitato dal vento. E quel che trovi è solo cenere.
A teatro è Estaban a raccontare la storia di Manuela: a sipario chiuso e luci accese, il giovane sale sul palco per introdurre la vicenda e per spiegare perchè ha bisogno di sapere tutto sul padre. Il sipario si apre spiazzando gli spettatori, come solo Almodòvar sa fare: quella che pare una scena vera di dolore per la morte di un giovane e la conseguente donazione degli organi è invero uno spot girato in ospedale. Le immagini ingigantite sul fondale mostrano impietosamente i particolari dei volti, delle preoccupazioni, dei dolori, la rugosità della disperazione.
L'atmosfera si alleggerisce a casa di Manuela, l'infermiera interprete del video: è il compleanno del figlio e lei gli ha regalato i biglietti per "Un tram che si chiama desiderio" interpretato da Huma Rojo, attrice che lui ammira. La scena teatrale del Tram è caratterizzata da morbidi veli bianchi che scendono fluttuando dall'alto a creare una intercapedine con la platea; Manuela ed Esteban sono seduti su una gradinata, speculari rispetto agli spettatori grazie a un efficace espediente scenografico che ribalta la prospettiva. Esteban adora Huma al punto da aspettare sotto la pioggia per un autografo. Ma, nel momento in cui la Rojo esce dai camerini e si avvia correndo dietro la sua amante Nina, Esteban fa per seguirla e una macchina lo travolge, uccidendolo. Un lampo accecante. Una vita spezzata, anzi due: Manuela è incredula, allibita, disperata. Di nuovo in ospedale, apparentemente la stessa scena dell'inizio, ma stavolta è realtà: Manuela firma il consenso per l'espianto degli organi di Esteban, suo figlio. E il suono dell'encefalogramma piatto è straziante, toglie il respiro.
La storia prosegue a Barcellona, qualche mese dopo. Ci sono Agrado e suor Rosa, due personaggi molto lontani che si somigliano nell'essere entrambi "ai margini" e per motivi diversissimi, due outliers. Esteban riappare ogni tanto, a raccordare le scene, a ricordare a Manuela passato incancellabile e un vuoto incolmabile, a testimoniare l'andamento onirico del racconto. Le storie si moltiplicano, come fili si intrecciano, dando vita a un tessuto a rilievo. Alcuni cerchi si chiudono: la morte di suor Rosa pone un bimbo in braccio a Manuela, di nuovo un figlio di Lola; la morte di Lola spezza un passato di dolore. Manuela ha una seconda occasione e si chiede: "Quanto tempo ci vuole per dimenticare?" Lasciando la risposta agli spettatori.
Interessante l'intuizione del regista di ambientare il finale, anziché al cimitero, in una camera di ospedale, la stessa in cui muore Rosa: in quel letto muore anche Lola, una Lola che ha le stesse sembianze di Esteban (è lo stesso attore), come a chiudere il cerchio. Come se Esteban non fosse dotato di propria autonomia ma, per Manuela, fosse la proiezione di Lola, un suo duplicato. No solo il figlio, quanto un suo avatar che la aiuta a vivere dopo quell'amore finito, una concretizzazione di quell'amore totale a cui fu costretta a rinunciare e che l'ha obbligata a partire. Estaban diventa così ancora più evidentemente quell'amore la cui presenza diuturna ha giustificato la vita di Manuela, accompagnandola negli anni madrileni. Un amore perduto che ha giustificato una vita. E che, una volta perduto di nuovo, porta Manuela al punto di partenza. Per ricominciare da capo. Ancora una volta.
Rigorosa nelle geometrie ben definite la scenografia di Antonio Panzuto, bellissima; i fondali sono quadri astratti o piuttosto aniconici e cambiano a seconda delle scene, come voltare pagine, connotando in modo non figurativo quanto avviene. Assai efficace la gradinata delle scene ambientate in teatro, che crea un gioco di specularità con lo spettatore e ribalta la prospettiva del palcoscenico, perfetto meccanismo metateatrale che intreccia ancora di più vita e teatro.
I costumi di Gianluca Falaschi datano la messa in scena in modo sobrio, dagli oversize di Manuela ai luccichii piumati di Agrado.
Splendide le luci di Alessandro Verazzi, basate su forti colori primari (arancio, viola, verde) e chiaroscuri che perfettamente rendono l'oniricità del testo.
Il suono, perfetto e curato da Daniele D'Angelo, ha una notevole importanza, sia nei suoni veri e propri presi dalla realtà, sia nelle musiche riadattate ad evocare la Spagna in modo non scontato.
I personaggi almodovariani sono ordinari e, al tempo stesso straordinari, nel senso di extra-ordinari, qui resi con massima cura registica e attoriale. Nelle mani di Muscato prendono una forma interessante.
Elisabetta Pozzi è una straordinaria, intensa Manuela, perfetta nel ruolo. Mentre salivo a Parma, leggevo "Controvento" di Angeles Caso e Manuela mi ha ricordato la protagonista, convinta che nulla la possa fermare ma la minaccia, del tutto inaspettata e proveniente dal terreno insidioso dell'amore, la costringe a ricominciare da capo. La Pozzi è emozionante nel rendere l'umanità e la carica emotiva di Manuela, nel toccare le corde del dolore e della gioia, nel districarsi tra ricordi e speranze.
Alvia Reale è una aristocratica e innamorata Huma; Eva Robin's un umanissimo e divertente Agrado, mai sopra le righe; Paola Di Meglio la madre di Rosa dal fisico insugherito; Silvia Giulia Mendola una petulante Suor Rosa; Giovanna Mangiù una schizzata e indisponente Nina; Alberto Onofrietti un convincente Esteban e una commovente Lola; Alberto Fasoli interpreta in modo appropriato e camaleontico tutti i ruoli maschili.
Dopo la presenza dominante di Tennessee Williams, nel finale spicca Garcìa Lorca, la passione travolgente e insopprimibile, incoercibile di "Nozze di sangue". Il sipario si chiude sul dubbio di quanto tempo ci voglia per dimenticare oppure per ricominciare. Personalmente non ho mai capito se sia più dura non raggiungere mai la felicità o conoscerla per un momento e poi perderla. Io credo piuttosto che, alla fine, resti quel poco che deve restare.