Il più europeo degli americani, il coreografo William Forsythe mette in scena uno spettacolo sul non potere. Più William Forsythe procede nel suo percorso di ricerca coreografica e maggiormente le sue creazioni si spingono nei registri della disperazione e dell’isteria collettive, dell’insicurezza e dell’isolamento. Con “Yes We Can’t” Forsythe adotta una sintassi sincopata e regressiva. Il risultato? Al primo sguardo è brutale e disincantato. La metrica della coreografia è chiara dall’inizio: il fondo della scena occupato solo da due microfoni e danzatori urlanti. Questi, dietro il microfono, emettono suoni quasi incomprensibili. La scena è vuota. In fondo al palco grandi pilastri bianchi interrompono la linea di fuga e creano uno spazio freddo dove tutto è possibile. Un grido fende la solitudine di questa scena. I quindici danzatori si accasciano violentemente su una musica destrutturata. Una furia collettiva si diffonde. Un danzatore prende la parola al microfono. I corpi si contorcono in un’angoscia metafisica. Le silhouette cercano una via d’uscita dal caos, dalla costante che vede l’uomo chiuso nella sua solitudine e nella paura dell’altro. Uno dei coreografi più amati ha preso il pubblico in contropiede. “Yes We Can’t” descrive una società destrutturata, e diffonde un disagio sottile e profondo, un malessere che si può respirare. Questo coreografo pieno di inventiva, che ha rivisitato la sintassi del balletto classico fondendola con quella della danza d’avanguardia in una lingua di grande bellezza, che non smette mai di attingere al vocabolario accademico per ridefinirlo, che ha reso inefficaci i codici della rappresentazione, il filosofo del movimento che immagina messe in scena a metà strada tra lo spettacolo e la recita, sembra essere anche un cittadino impegnato nella denuncia sociale della nostra epoca. I contrasti musicali di Dietrich Krüger, Niels Lanz e David Morrow accompagnano la performance che si snoda in una successione di piccole scene in cui a solo, passi a due e di gruppo si susseguono e si fondono in un tutt’uno caotico. Lo spettacolo termina con l’invito ripetuto da un danzatore a più riprese: "Take my hand !", ma è solo sulla scena e l’esortazione resta in sospeso, un infinito camminare, danzare, vivere. Questa creazione di Forsythe pretende uno spettatore autonomo, che pensi col proprio sguardo. Forsythe e i membri della compagnia non ci raccontano una storia, non ci indicano una posizione o un’idea, non fissano limiti. I movimenti giocano un ruolo primordiale ed è con esse che noi spettatori ci dobbiamo confrontare, col pensiero, con lo sguardo, con l’ascolto anche. E’ un torrente d’energia, di idee, di immagini inusitate allo sguardo ed anche al tatto a cui passa solo accanto chi non finisca per essere catturato dal fascino di questo caotico ordine, chi cerchi una direzione o si annoi. Questa nuova produzione è una professione di fede nell’imperfezione, rivela alla fine di possedere una struttura elaborata nella quale tutti i pezzi del puzzle della narrazione cambiano continuamente posizione o possono essere interpretati in modo diverso. Lo spazio scenico resta aperto alle associazioni mentali più diverse, mentre la coreografia è drasticamente fluida, rigidamente ariosa. In chiusura la felicità del passo a due finale, una nota tenera confidata alle donne, come un tratto rosa dopo un inferno.
William Forsythe sembra preoccupato oggi di tradurre la sua epoca. Un pezzo di affascinante, ardente assurdità.
Danza
YES, WE CAN’T
Il più europeo degl…
Visto il
14-04-2012
al
Municipale Romolo Valli
di Reggio Emilia
(RE)