Luci soffuse in sala, niente buio, sipario aperto e attori che passeggiano tranquillamente sulle tavole del palcoscenico come durante una delle tante prove preparatorie. Talvolta si siedono in disparte e osservano e commentano, con smorfie e risate, le battute dei colleghi impegnati nelle prime scene della piéce; talaltra si alzano, si vestono e svestono, spostano mobili, orpelli di scena, escono ed entrano. Il pubblico è abbastanza sconcertato, ma gli attori sono accattivanti, rivolgono occhiate eloquenti agli spettatori, dialogano con loro, li chiamano dentro la messinscena, li fanno addirittura ridere nella concitazione delle battute, nell’interpretazione leggera e scanzonata di personaggi come il dottor Astrov-Michele Di Mauro o della balia-Laura Curino. Stiamo davvero assistendo a “Zio Vanja” di Checov? Non è piuttosto Goldoni? O Pirandello? “Ma Checov non è quello dei ‘drammoni’ esistenziali russi?”, sembra chiedersi l’intero teatro.
Pian piano la luce si abbassa, il buio diventa impercettibilmente concreto e il primo atto viene catapultato verso l’apice della tensione che corrisponde al massimo dell’inazione da parte dei personaggi checoviani. Il secondo atto restituirà un po’ del pathos tragico al dramma, senza mai perdere tuttavia la propria leggerezza interpretativa.
In una tenuta di campagna della provincia russa dell’Ottocento, la goffa Sonja-Francesca Porrini e l’insoddisfatto Zio Vanja-Eugenio Allegri vedono le proprie vite sconvolte dall’arrivo del padre della ragazza, e cognato del protagonista, insieme alla sua seconda moglie, la bella e ammaliante Helena-Lucilla Giagnoni. Il piccolo mondo di Sonja, di Vanja, della balia e del dottor Astrov, fatto di lavoro e sacrificio, sogni celati e speranze inespresse, sembra d’un tratto crollare a causa dell’ingombrante presenza di Monsieur Le Professeur Serebrjakòv, egocentrico e ipocondriaco, e della conturbante aura seduttrice della moglie. Travolti da una specie di follia collettiva, dimentichi della propria normalità, Vanja e Astrov arriveranno a confessare la propria passione per Helena, Sonja per il dottor Astrov, senza che nessuno sia realmente ricambiato. La dura realtà torna infine ad affacciarsi nelle vite degli abitanti della tenuta, enfatizzata dalla sciagurata proposta del professore di vendere i possedimenti per poter vivere di rendita in città. Zio Vanja, il più fragile di tutti, colui che ha sacrificato la propria esistenza per il cognato, per la sua fama di accademico, per il suo prestigio, si sente tradito e cerca di ucciderlo fallendo miseramente. La tragedia si tramuta in farsa e, con la partenza dei due estranei, tutto ritorna alla ritualità contadina come sempre è stato e sempre sarà.
Un sipario di cellophane sembra avvolgere l’ultima scena, una scena di fissità e immobilità, di consuetudine e rassegnazione, nella quale l’unica speranza di un miglioramento futuro risiede nella morte. Splendido l’uso della scenografia nell’ultima scena, in cui la morte, evocata dalle parole di Sonja a Vanja, è incarnata da pochi alberi rinsecchiti penzolanti sul palcoscenico, dei quali si vedono solo le radici, quasi l’azione scenica si svolgesse ormai sottoterra, tra i vermi e la consunzione.
Nella regia di Vacis, “Zio Vanja” è attualizzato e moderno. Grazie alla naturalezza interpretativa di Di Mauro, Allegri e della Curino su tutti, le battute più graffianti del testo originale, sull’ecologia e sulla fine della natura, sul fallimento del genere umano e sulla speranza nella posterità, risuonano nel teatro e fanno vibrare gli animi degli spettatori del Ventunesimo secolo. La sua messinscena informale e quasi metateatrale, nella quale gli attori sembrano interpretare se stessi più che i superati personaggi checoviani, coinvolge lo spettatore fino a un grado superiore di partecipazione al testo.
Visto il
12-01-2010
al
Donizetti
di Bergamo
(BG)