
La censura di Stato e le sue implicazioni, che possono schiacciare chi ne è vittima in un meccanismo quasi kafkiano: un meccanismo che però alla fine rischia di coinvolgere anche chi deve metterla in pratica, quella censura. E’ questa l’essenza del dramma Il Rito, scritto da Ingmar Bergman per il teatro, migrato alla televisione e poi ritornato al teatro. A metterlo in scena stavolta è stato Alfonso Postiglione, che ha curato adattamento e regia.
La censura, si diceva. Il testo è l’atto di ribellione del grande regista svedese contro le censure e i tentativi di condizionamento che lui stesso dovette sopportare a più riprese durante la sua lunga carriera. Una ribellione intelligente e grottesca, come nel suo stile.

Un inizio subito inquietante
All’inizio non si capisce bene cosa succede, ed evidentemente si tratta di un effetto cercato ad arte dalla regia. In scena c’è una specie di piattaforma rialzata, con un omino piegato alla scrivania, seminascosto nell’ombra. Sotto, ci sono due uomini e una donna vestiti di bianco.
La loro psicologia è sfuggente. Sembrano annoiati, distaccati, forse infastiditi: hanno l’aria di chi ha la testa altrove, di chi vorrebbe essere in altri posti a sbrogliare le sue cose. La donna sembra davvero allucinata, uno degli uomini si comporta come se non si rendesse conto della gravità della situazione. L’unica cosa davvero evidente è la costrizione: i tre sanno che sono obbligati a restare lì loro malgrado, ad aspettare che accadano cose che non dipendono da loro.

Gli uomini e la donna sono i componenti di una compagnia teatrale, e sono stati denunciati per oltraggio al pudore a causa del contenuto dell’ultimo loro spettacolo. E quando il giudice obbliga i tre imputati a mettere in scena solo per lui lo spettacolo incriminato, scatta il corto circuito che ribalta il senso etico della situazione e quindi della morale corrente.
I nove quadri sfuggono allo spettatore perché si mischiano tra loro e la scenografia è fissa, con gli attori quasi statici al suo interno. La scena essenziale e simbolica crea un'atmosfera claustrofobica e densa di tensione: i dialoghi serrati e i conflitti interpersonali tra i protagonisti fanno il resto.

Il teatro mette in scena sé stesso
Resta l’idea di un teatro che mette in scena sé stesso, dentro un treno che procede sempre più velocemente verso il massacro finale.
La censura per atti osceni diventa un pretesto per dare modo a Bergman di parlare anche d’altro: l’abisso della psicologia umana e le sue inquietudini, lo scambio tra verità e finzione che avviene dentro il teatro ma anche dentro la vita, il rapporto tra arte e potere, il desiderio sessuale irreprimibile e violento per natura, per finire con Dio e i suoi precetti morali, che certi uomini pretendono di applicare a spese di altri uomini.
Tutti molto bravi i quattro attori. Alice Arcuri è una bellissima Thea: algida, allucinata (oltre che di carattere, anche per l’uso di droghe), fragile e nevrotica. Sebastian è Giampiero Judica: vanitoso, violento, vizioso, annoiato. Sostanzialmente un fallito che trova un minimo di giustificazione della sua esistenza in ciò che fa con gli altri due, e cioè il teatro: lo spettacolo ricopre di consistenza apparente la sua inconsistenza reale.
Il giudice schiavo delle cose che deve censurare
Antonio Zavatteri è Hans: razionale, noioso; tanto razionale da essere indifferente al tradimento della moglie. Partecipa con altrettanta indifferenza al mènage à trois con il compagno di scena Sebastian. Proprio il terzetto amoroso è una delle pietre dello scandalo: è alla luce del sole, nessuno fa nulla per nasconderlo. Inevitabile a quel punto, con la mentalità degli anni 60, finire a processo per oltraggio al pudore.
Zavatteri si immerge profondamente nel complesso personaggio che interpreta. La sua capacità di trasmettere le sfumature emotive del ruolo è uno dei punti cardine dello spettacolo.
Alfonso Postiglione rende alla perfezione la figura del giudice schiavo delle stesse passioni e perversioni che per lavoro deve censurare. Inizia come un vero investigatore che nasconde l’acume dietro un approccio amichevole e informale, poco dopo scopre le carte dell’inquisitore, messo lì da una volontà oggettiva, superiore e trascendente; e poi viene travolto.